L’immigrazione clandestina vista da un altro punto di vista, quello dei trafficanti di esseri umani che, da una sponda all’altra del Mediterraneo lucrano su disperazione, ignoranza, sogni di migliaia di uomini, donne e bambini. L’Invasione. Il lato oscuro del traffico di uomini sulla sponda opposta del Mediterraneo (Historica / Giubilei Regnani, 2023, p. 120) di Francesca Galici, è un’inchiesta giornalistica che mescola strumenti vecchio stile con i canali offerti dai social network come Whatsapp e Facebook, ove l’autrice ha potuto pescare nel mare magnum di questi moderni Caronte e degli sventurati pronti a mettersi nelle loro mani.
Un lavoro d’inchiesta
Contattare, ottenere la fiducia, farsi raccontare, spiare, nell’intricata trama della rete infiltrandosi in decine di gruppi e chat, dove i trafficanti gettano l’amo per attirare quante più persone possibili nella rete delle migrazioni irregolari. Per farlo, si è finta uomo, subsahariano, bilingue, fluente in francese come in arabo, interessato a intraprendere la via del Mare nostrum. Questo perché le organizzazioni maggiormente penetrabili sono quelle dei subsahariani, sia in Libia sia in Tunisia. Migliaia di messaggi e discussioni da sviscerare, per comprendere un sistema composto da un groviglio di interessi e relazioni nel quale coabitano disperazione, profitto, revanchismo postcoloniale, fondamentalismo religioso. Da prima della partenza fino alle carrette del mare, l’unica voce in capitolo è quella dei trafficanti, sobillatori malevoli che spesso instillano-soprattutto nei più vulnerabili-l’odio per l’Europa e i suoi valori. Sono gli stessi che sui barchini si rendono protagonisti di orribili crimini a danno dei trasportati, dei quali hanno già incassato i dinari, tra cui gli stupri su donne e bambine. Lo scotto da pagare per essere in viaggio da sole.
L’Italia terra promessa e il terrorismo psicologico dei trafficanti
Il telefono di Galici squilla più volte al giorno: sono le notifiche di Whatsapp dei gruppi in cui si è infiltrata. Lì dentro, il suo numero di telefono è a disposizione di tutti, facilmente riconoscibile dal prefisso +39. Una ragione più che valida per ricevere richieste personali di aiuto. Le storie si somigliano e fanno appello a un immaginario collettivo che guarda all’Italia come un Eldorado: «Tutti hanno una possibilità in Italia», è il refrain di queste conversazioni. “L’illusione è più forte del realismo“, sostiene Galici. La maggior parte dei migranti è convinta, infatti, che arrivando in Italia e in Europa potrà dare una svolta alla loro vita, trovare un lavoro e guadagnare per mantenere le famiglie rimaste in Africa. Su queste giovani menti, che in casa conoscono la fatica, la frustrazione e la fame, il lavoro psicologico dei trafficanti e dei loro scagnozzi è martellante e subdolo. I messaggi motivazionali invadono la rete e giungono su quegli smartphone che hanno invaso anche l’Africa, a basso costo. Si cerca di convincere gli indecisi a prendere il mare per cambiare vita, facendo loro credere che al di là del Mediterraneo potranno ottenere tutto quello che sognano: soldi, donne, successo, come i calciatori. Un vero e proprio indottrinamento, soprattutto tra i giovanissimi uomini, chiamati “soldati”.
Il nodo Tunisia e la battaglia tra subsahariani e tunisini
La Tunisia possiede un riguardo particolare nel lavoro di Galici. La Libia, da tempo, sembra aver lasciato la mano al Paese di Kaïs Saïed, più vicino all’Italia e più “sicuro” per i migranti illegali: la maggior parte dei subsahariani, infatti, si riversa ormai in Tunisia. Qui il dramma dell’immigrazione illegale si va a insediare in un Paese complesso, come l’intero Maghreb, sospeso tra Africa ed Europa. Contro i subsahariani sono nate vere e proprie milizie di cittadini tunisini che, soprattutto la notte, agiscono per farsi giustizia da sè contro le violenze subite quotidianamente. La situazione economica del Paese di Saïed al momento è disastrosa. La disperazione dei cittadini, frustrati da quella che considerano una vera e propria invasione della quale non si vede la fine, e schiacciati dalla povertà dilagante, sfocia in una forma di collera incontrollabile. Una drammatica guerra tra poveri.
Dal lato suo, la Tunisia sta tentando di risolvere il sovraffollamento di subsahariani nelle città. Dopo un primo tentativo da parte del governo di usare un approccio “soft”, agevolando i rimpatri volontari, sono iniziate le deportazioni. Centinaia di subsahariani irregolari sono stati caricati a bordo di autobus diretti verso il deserto algerino e quello libico. In questa guerra della povertà, tutta africana, gli uomini della Marina tunisina vengono accusati di lasciar passare i barconi di tunisini ma di bloccare quelli dei subsahariani. Sulla Marina tunisina piovono anche accuse di ricettazione, in quanto ruberebbero i motori dai convogli: le autorità negano e gli stessi tunisini difendono l’establishment.
Partire: come, da dove
Sono profonde le differenze che si possono riscontrare tra le organizzazioni illegali libiche, turche e quelle tunisine, anche perché diverse sono le tipologie di migranti che prendono il mare dai tre Paesi. Un elemento comune però esiste, ed è rappresentato dai pochi locali che decidono di partire rispetto agli “stranieri”. Dal Paese di Saïed partono soprattutto migranti subsahariani, dalla Libia, invece, i convogli sono composti soprattutto da mediorientali, una composizione simile a quella che si riscontra nei barconi che lasciano la Turchia. Libici e tunisini sono in percentuale minoritaria nel flusso di migranti in arrivo nel nostro Paese.
Nell’organizzazione tunisina, racconta Galici, oltre ai responsabili, sono due le figure principali: i koxeur e i camorasseur. I primi devono formare i gruppi di migranti in base alle disponibilità della barca e tra questi devono anche individuare i capitani e i bussolieri. È uno dei compiti principali all’interno dell’organizzazione, perché da questo dipende la buona riuscita del convoglio. I secondi, invece, si occupano di organizzare materialmente la partenza. Le partenze avvengono solitamente dalle coste di Susa, Monastir, Mahdia e Sfax per i lanci in direzione di Lampedusa; da Biserta e dall’area di capo Bon per raggiungere Pantelleria.
Quanto costa partire
L’organizzazione è profondamente radicata nel tessuto tunisino, dove da anni locali e migranti collaborano, seppure con diffidenza reciproca, per il raggiungimento dello stesso scopo: guadagnare. Attraversare il mare per arrivare in Italia dalla Tunisia costa mediamente 3000 dinari, che corrispondono a circa 900 euro. Non mancano le proposte a partire da 1500 dinari e quelle che arrivano fino a 5000 o 7000 dinari ma dietro ogni cifra, dietro ogni proposta, si nasconde una ben specifica tipologia di traversata. Non esiste una cifra unitaria nel traffico di esseri umani dal Nord Africa all’Europa perché sono innumerevoli le variabili che incidono nella determinazione del costo della singola traversata. Assistendo alle conversazioni tra i migranti e i trafficanti, Galici sottolinea un elemento comune: quanto più è scontato il prezzo tanto più sarà pericoloso il convoglio. Dietro una cifra portata eccessivamente al ribasso dei trafficanti si nasconde il più delle volte un sovraccarico dell’imbarcazione, che causa il ribaltamento durante la navigazione e, quindi, il naufragio e la perdita di vite umane.
Donne incinte e bambini
Se il koxeur non riesce a raccogliere il numero di persone previsto affinché tutti i tasselli combacino nel riscontro economico, per i camorasseur si aprono due alternative: aumentare i prezzi e partire con una barca semi-vuota, ma sicura, o ridurre i prezzi per convincere un maggior numero di migranti a prendere il mare e, di conseguenza, fare un sovraccarico. A questi si aggiungono i bambini, per i quali la politica dei trafficanti è variabile: alcuni, li fanno viaggiare gratis fino all’ottavo anno di età mentre altri chiedono il pagamento della metà della cifra stabilita per gli adulti. Ma ci sono anche i trafficanti che tentano una strada spregiudicata con un solo obiettivo: ricattare l’Italia. In alcuni convogli donne in gravidanza e bambini vengono fatti viaggiare gratis perchè valgono oro. O meglio, si cercano appositamente le gravide e gli infanti – preferibilmente neonati – da caricare a bordo delle carrette per ottenere interventi più rapidi da parte delle autorità. Purtroppo, molto spesso, sono i primi a morire. Barchini in legno, barchini in metallo gommoni, pescherecci, barche a vela, caicchi: per loro, salire su un’imbarcazione piuttosto che un’altra garantisce maggiori o minori garanzie di salvezza e, infatti, anche i costi variano notevolmente.
Politiche di ricatto e armi spuntate
Nell’indagine di Galici non figurano soltanto le rotte, ormai di pubblico dominio, ma quella zona grigia tra la partenza e lo sbarco. Nel mezzo, ogni tipo di tragedia umana. Ma soprattutto una doppia battaglia: quella per essere salvati dall’Italia, ma di essere fantasmi per le motovedette dei Paesi di partenza, come Tunisia e Libia. Un problema non di secondaria importanza, rammenta l’autrice, perché passare all’ombra dei sistemi di rilevamento nordafricani senza perdere la rotta non è semplice. A riprova di ciò i tanti barchini che si “perdono”, incapaci di raggiungere l’altro lato del Mediterraneo.
L’indagine di Galici va oltre, estendendosi non solo ai meccanismi di propaganda che fomentano orde di disperati, ma anche alle strategie specifiche perseguite da Paesi come Qatar e Turchia che utilizzano l’immigrazione come arma di ricatto, cavalcando lo strumento dell’Islam politico che trova terreno fertile nelle falle politiche e culturali d’Europa. L’assenza di documenti, senza possibilità di identificazione certa per centinaia di persone, complica un sistema di sicurezza già complesso e traballante: non si può negare, infatti, che gli attentati che hanno insanguinato l’Europa in nome di Allah hanno connessioni reali ed evidenti. Non a caso, Galici si muove anche in questo substrato occulto, sondando la portata del giro di documenti falsi legati all’immigrazione clandestina: una vera e propria “industria”, a proposito della quale, come ricorda Galici, “l’Italia ha solo armi spuntate“.