Il comunismo british di Philby, agente segreto per conto di se stesso

Il comunismo british di Philby, agente segreto per conto di se stesso

Fra le spie del XX secolo, Kim Philby resta, se non la più importante, la più glamorous, per usare un termine tipicamente inglese tanto quanto tipicamente inglese fu lo stesso Philby… Il glamour è infatti una sorta di fascino magico in cui si possono mischiare più cose, simpatia, eleganza, brillantezza di spirito, ma che ha poco a che vedere con qualcosa di più profondo: l’intelligenza, la capacità analitica, la visione d’insieme.

Sotto questo aspetto, Richard Sorge, che fu un suo omologo tedesco anche lui al servizio dell’Urss, ma sul fronte dell’Estremo Oriente, risulta più profondo e più complesso, così come più avventurosa fu la sua stessa vita. Dietro Sorge e la sua adesione al comunismo si delinea un pensiero, un’ideologia, una conoscenza della geopolitica e, perché no, persino una visione del mondo, mentre ciò che rimane misterioso, ma sarebbe meglio dire vago, in Philby è proprio il perché di quella scelta. Niente, infatti, che vada oltre la scontata frustrazione di chi, bambino e poi adolescente, si era sempre sentito poco amato dalla madre e schiacciato dalla personalità del padre. St John Phil by era un arabista famoso, esploratore e scrittore, nonché per molti versi la quintessenza dello snobismo imperiale e imperialista che contraddistingueva il colo nialismo britannico al culmine della sua gloria: non a caso aveva dato al figlio come nome di battesimo quello dell’eroe dell’omonimo romanzo di Rudyard Kipling…


Nemmeno l’ultima e più accurata biografia di Kim Philby, Una spia tra noi (Neri Pozza, pagg. 429, euro 22, traduzione di Raffaella Vitangeli), di Ben Macintyre, riesce in proposito a chiarire le cose: «Le sue idee erano radicali, ma semplici: i ricchi avevano sfruttato i poveri per troppo tempo; il solo baluardo contro il fascismo era il comunismo sovietico, “la fortezza interna del movimento mondiale”; il capitalismo era decrepito e condannato ad estinguersi; l’establishment era corrotto da simpatie naziste».

Vale la pena ricordare che Philby continuò a spiare per Mosca fino agli inizi degli anni Sessanta, quando cioè fascismo e nazismo erano rimasti seppelliti sotto la Seconda guerra mondiale e insomma l’idea del “baluardo” aveva perso la sua ragion d’essere. Se la prospettiva di un capitalismo a fine corsa appariva supportata da scarsi elementi, la denuncia dello stalinismo a opera di Kruscev non lo turbò però più di tanto: «I princìpi della rivoluzione sarebbero sopravvissuti alle aberrazioni degli individui» scriverà nell’autobiografico My Silent War, ma, osserva Macintyre, più che un ideologo e un lealista della causa comunista, Philby era «un dogmatico che attribuiva valore a una sola opinione: la sua». «Sebbene la politica fosse destinata a diventare il motore della sua vita», aggiunge, «non mostrava un particolare interesse per la teoria».


Non esistono nemmeno prove che avesse studiato o semplicemente letto, le opere di Marx o quelle di Lenin…

Sul perché di questa doppia vita, e della fede incrollabile «in una serie di princìpi politici», Macintyre avanza comunque una considerazione interessante: «Come molti prodotti dell’establishment di fine impero, Philby aveva la fiducia innata nella propria capacità, e nel diritto, di cambiare e governare il mondo». Era insomma un imperialista, anche se la sua fedeltà andava a un impero rivale rispetto a quello che sarebbe dovuto essere il suo. Lo era però in perfetto british style: «Gli inglesi amano i segreti e l’essere custode di segreti raddoppia quello che lo storico Hugh Trevor-Roper ha definito “il delizioso piacere di un potere spietato, infido e segreto”. Philby, che da giovane aveva assaporato la potente droga dell’inganno, rimase dipendente dal tradimento per il resto della vita».

L’inglesità di Philby è del resto intimamente connessa alla sua carriera di spia: grazie a essa arrivò a essere il capo del controspionaggio britannico contro l’Unione Sovietica nell’immediato dopoguerra; grazie a essa sopravvisse professionalmente al sospetto di tradimento legato al caso Burgess-Maclean che nel 1951 lo costrinse alle dimissioni e cinque anni dopo gli permise il rientro in servizio come agente per il Medio Oriente, incarico che tenne sino al 1963 quando, questa volta definitivamente smascherato, si volatilizzò da Beirut per riapparire, qualche mese dopo, a Mosca…

Il sistema inglese delle classi riteneva impensabile che un puro prodotto dell’establishment potesse schierarsi contro l’establishment, «un vero e proprio limite mentale», come lo definirà lo stesso Philby. Quelli come lui facevano parte di una sorta di massoneria sociale: erano tutti figli di funzionari o di membri illustri dell’impero, erano andati tutti nelle stesse public schools, avevano tutti frequentato Cambridge o Oxford, erano tutti iscritti agli stessi clubs, si frequentavano fra loro, nutrivano la stessa passione alcolica nonché un’identica voracità sessuale, omo o etero che fosse… Erano insomma il succo più puro dello stile inglese e la loro inglesità fungeva da ombrello di protezione: non c’era scandalo che non potesse essere messo a tacere, bizzarria che non potesse essere tollerata. Quando Donald Maclean venne smascherato dall’intelligence americana, era al Cairo come consigliere e direttore di cancelleria nell’ambasciata britannica e il suo amico e sodale Guy Burgess era di stanza a Washington, funzionario addetto alle informazioni anche lui dell’ambasciata…


Come Philby, erano tutti membri dell’M16, il che, tornando al sistema di classi prima ricordato, stava a indicare qualcosa «di signorile, elitario ed esclusivo», l’esatto opposto dell’M15, ovvero del servizio di sicurezza interno, considerato dai membri del primo «di second’ordine e vagamente ordinario. L’M15 guardava l’M16 con risentimento, l’M16 guardava l’M15 dall’alto in basso e con un sorriso malcelato». La battaglia sul caso Philby fu, sotto questo profilo, «l’ennesima scaramuccia nell’interminabile, accanita e assolutamente ridicola guerra di classe britannica».

Ben scritto, basato su documenti e file inediti dell’intelligence britannica, Una spia tra noi racconta anche molto dell’avventurismo spionistico in generale e di quello inglese in particolare: operazioni abborracciate e spesso con esiti disastrosi; eccesso di fiducia mal riposta, scarsa segretezza, tendenza a credersi al di sopra delle leggi e della politica del proprio Paese, lo spionaggio visto come una sorta di «religione patriottica» e i suoi membri come esponenti di una confraternita selezionata, «baroni briganti» secondo la definizione di uno dei loro capi, e fra un Martini e l’altro, in questo o in quel club di cui erano soci, sempre intenti a magnificare i loro successi.

Più immaginari che reali, come il caso Philby sta a dimostrare: avere il nemico in casa, scambiarlo per il migliore dei tuoi, dargli le chiavi della tua sicurezza per molti, troppi anni, farselo poi fuggire sotto il naso.

A meno che, anche qui, la solidarietà di classe…

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