Dal superbo all’orrido. La vita da poema di Delmore Schwartz, il Rimbaud d’America

Dal superbo all'orrido. La vita da poema di Delmore Schwartz, il Rimbaud d'America

Nacque l’8 dicembre del 1913, a Brooklyn, Delmore Schwartz. Quel giorno, nevicava. «Il bambino venne al mondo di notte, la neve iniziò a cadere dalle zone basse del cielo, verso il grigio-rosa della città; traboccava la sua emozione, la gioia lo esaltava: OH, Vita, meravigliosa oltre ogni esagerazione». Così attacca Genesis, poema di fragorosa, agnostica bellezza pubblicato nel 1943 dalla New Directions di James Laughlin. Consacrato come il Rimbaud d’America, precoce fino all’inquietudine, Delmore Schwartz era certo di aver scritto il suo capolavoro. Il poema con toni che vanno dalla fiaba alla Cabbala racconta la storia di Jack Green, alter ego dell’autore, figlio di ebrei rumeni incistati nel sogno americano. Nel testo, di lisergica erranza naturalmente inedito in Italia , appaiono Socrate e Amleto, Don Chisciotte e la Regina di Cuori, gli spettri biblici e gli straccioni della New York anni Trenta, l’angelo a Long Island e lo Zio Sam: «Molti sono i morti./ Vieni a noi con la tua storia infinita, disse la voce./ L’allucinazione ti tende la mano,/ Questa è la via per la libertà e il potere/ Questa la via della sapienza e della speranza/ Questa è la via in cui il mondo comincia e finisce/ Logos, l’intimo dell’uomo che erutta…».

In quel libro, la neve, pari a una formula magica e a un anatema, è ovunque. «Nevica! Il cuore ha fretta/ e lo costringe alla finestra. L’amore è in lui ancora infante./ Bianca delizia di dicembre…/ Libertà e silenzio splendono sopra New York/ e in alto: il guscio tagliato a metà della luna/ che scintilla come ghiaccio elettrico». La neve: materia eletta a sciogliersi, benedizione transitoria, vita famelica che va, vana. Il padre di Delmore, Harry Schwartz, era bello, sapeva fare i soldi, gli piacevano le donne. Morì nel 1930, lasciando al figlio una discreta eredità. La moglie, Rose, l’aveva beccato più volte con ragazze di malaffare si erano separati tra urla e promesse di vendetta.

Cresciuto tra la Columbia e la New York University, disfatto dalla claustrofobia accademica, Delmore scrive in continuazione. Nel 1938 pubblica In Dreams Begin Responsibilities tradotto in Italia da Attilio Veraldi, ripubblicato adesso come Nei sogni cominciano le responsabilità (Beat) «tra la dozzina dei più bei racconti mai scritti negli Stati Uniti», secondo il laconico giudizio di Vladimir Nabokov. Delmore, per un po’, diventa una celebrità: gli scrive Thomas S. Eliot, il poeta che più di tutti ammira, si scrive con Ezra Pound, da pari. L’anno dopo, a causa dei «pregiudizi razziali» avanzati da Pound, s’incazza: «Una razza non è artefice di atti morali soltanto un individuo può essere morale o immorale… mi dimetto dal ruolo di tuo più fedele ammiratore», gli scrive. Continuerà a leggere con foga i Cantos.

Nel frattempo, la vita di Delmore Schwartz, tra i più autorevoli poeti del suo tempo, sfuma in disastro. Quando pubblica Genesis si è separato dalla prima moglie. Il libro con cui credeva di sbattere in soffitta l’opera di Eliot e di Pound è, per lo più, incompreso. Troppo colto, polimorfico, esagitato. Delmore, come Dante, unisce il prosaico al paradisiaco, alterna l’orrido al superbo, l’oro alla merda. Così John Ashbery, tra i sommi poeti americani contemporanei nel 2019 Bompiani ha pubblicato Autoritratto entro uno specchio convesso , stigmatizza la vicenda esistenziale di Delmore: «I lettori indifferenti alla poesia provano ancora oggi un crudele godimento nell’ascoltare la saga canonica del poeta straordinario, annunciato come un genio, l’Emmanuele della poesia americana, il più grande giovane lirico dei suoi tempi, rapidamente distrutto dalla malattia mentale e dalla dipendenza da alcol e droghe, morto pressoché dimenticato all’età di cinquantadue anni in una squallida stanza d’albergo nel quartiere di Times Square, New York».

In un saggio di catartico nitore, The Isolation of Modern Poetry, Delmore Schwartz rintraccia proprio nella solitudine e nel frainteso l’autentico carisma del poeta contemporaneo. Il poeta appartiene al proprio tempo, ma è escluso dalla società. È il clown, l’abuso, l’avulso idiota, l’inerme monito. «Nella crescente industrializzazione non c’è spazio per un mostro come l’uomo colto», scrive. Eppure, è proprio questo «forzato isolamento» a consentire al poeta «direzioni sorprendenti per la propria opera». L’incomprensione non è uno stigma, ma il sintagma del genio. Delmore amava il Finnegans Wake di Joyce, che annotava con complice stupefazione; era certo che un libro deve disorientare e squarciarti in due, come una scure che l’oscurità è l’intima rivelazione della luce.

Per un po’ lavorò alla Partisan Review, per un po’ insegnò alla Syracuse University. I lavori stabili lo destabilizzavano. La seconda moglie, la scrittrice Elizabeth Pollet, lo lascia nell’estate del 1957. Il collasso mentale scardinò il poeta. Credeva che Elizabeth fosse l’amante di Rockefeller, che il Presidente Kennedy e il Papa cospirassero contro di lui. Saul Bellow che fece di Delmore Schwartz il protagonista di uno dei suoi romanzi più belli, Il dono di Humboldt, storia di un genio incapace di stare al mondo capitanò una sottoscrizione per pagargli le cure psichiatriche. Nei ricoveri, però, durava poco, Delmore: preferiva scappare al Greenwich Village, «in alloggi sempre più putridi». Robert Lowell ricorda gli ultimi giorni di Schwartz «tenue vocale torturata da sette consonanti» in una poesia dura e dolente, «tra le chiose a Joyce e le riviste porno», che eterna lo sguardo del poeta, «quegli occhi da cavaliere mongolo». Il Bollingen Prize ottenuto nel 1959 andato ai titani: Pound, Auden, Wallace Stevens, Robert Frost non risollevò Delmore da quell’austero, meticoloso massacro di sé.

Il più talentuoso discepolo di Schwartz, Lou Reed, gli dedicò una canzone, European Son e il cuore. «Ti ho visto nel tuo ultimo round. Ho idolatrato il tuo ingegno e la tua infinita sapienza. Sei e sarai sempre il solo», scrisse, piangendolo. In Italia, l’unica antologia di poesie di Schwartz, pubblicata avventurosamente da Ventura Edizioni l’anno scorso come America! America! (per la cura di Angelo Guida), risulta già di difficile acquisto. L’anno prossimo, in febbraio, Farrar, Straus and Giroux stamperà i Collected Poems of Delmore Schwartz a cura di Ben Mazer. Il libro costa 50 dollari ed è un’occasione per conoscere «il poeta più sottovalutato del XX secolo», secondo la dida epigrafica e ingiusta di John Berryman.

«L’assoluta oscurità e lo spazio del sogno crollano su di lui./ Dapprima è spaventato, inorridito, infine è la quiete:/ ancora una volta, dice ciò che sa/ delle vite prossime alla sua/ della sua vita scoscesa dopo molte notti». Ci sono poeti capaci di fratturare il sole, di bruciare il proprio destino come fosse legna. Sono poeti che stanno sul lembo delle labbra, fragili come un fasciame di neve. Uno di questi è Delmore Schwartz.

Leggetelo senza innocenza, con mani brutali.

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