Una sentenza “storica”, perché non ha precedenti nel corso degli eventi della storia americana. Così è stata ribattezzata la decisione dei giudici della corte statale del Colorado, che si sono pronunciati con una maggioranza di 4 contro 3 sostenendo l’incandidabilità di Donald Trump alle elezioni primarie in programma a marzo. Il motivo è presto detto: nessun candidato ma soprattutto nessun ex presidente è stato escluso prima d’ora da un’elezione. Al leader repubblicano è stato impedito di comparire sulla scheda elettorale in quanto, avendo partecipato al tentativo di insurrezione del 6 gennaio 2021, avrebbe violato il 14esimo emendamento alla costituzione degli Stati Uniti.
In particolare, scrivono i giudici, la condotta dell’ex presidente lo interdirebbe dagli incarichi pubblici secondo quanto stabilito dalla Sezione 3 del suddetto emendamento, che vieta a qualsiasi “senatore o rappresentante al Congresso, o elettore del presidente e del vicepresidente” di ricoprire una carica civile o militare se questi è ritenuto responsabile di ribellione o insurrezione, contravvenendo al giuramento prestato prima di entrare in carica.
Le conseguenze sulla candidatura e la strategia difensiva
Lo stop della Corte è “congelato” poiché la sentenza è subordinata all’appello della difesa. Ciò significa che il magnate potrà comunque essere votato in Colorado: la scadenza per le candidature è fissata al 5 gennaio e, salvo clamorosi ribaltamenti, fino ad allora non dovrebbero esserci novità. Inoltre non è dal “Centennial State” che passano le probabilità di vittoria nelle primarie repubblicane. La possibilità però che altri Stati emulino il Colorado è molto alta, ma nelle scorse settimane cause identiche presentate in Minnesota, New Hampshire e Michigan non sono andate a buon fine. L’entourage di Trump ha già annunciato il ricorso alla Corte Suprema, il più importante tribunale del Paese, quello cosiddetto di ultima istanza.
Una strategia che potrebbe perseguire il team legale potrebbe essere quella di rivendicare l’applicazione delle leggi di amnistia approvate dal Congresso dopo la guerra civile per ripristinare i diritti politici cancellati ai confederati. Su questo tema la giurisprudenza si è espressa anche di recente, ma senza trovare una posizione definitiva. La linea difensiva si basa ad ogni modo sulla formalità dell’accusa: i giudici non sono chiamati a decidere se abbia avuto luogo un’insurrezione, ma sulla pertinenza dei dettami costituzionali che l’imputato avrebbe violato.
Cosa potrebbe decidere la Corte Suprema
Nel frattempo la Scotus (Supreme Court of the United States) non ha ancora rilasciato alcuna dichiarazione. I nove saggi potrebbero perfino rifiutare la richiesta di revisione, un’eventualità che risulta però improbabile essendo stata sollevata una questione di costituzionalità che solo loro potranno dirimere. Dei nove membri permanenti della corte, sei sono di orientamento conservatore, di cui tre nominati durante la presidenza di Donald Trump. Gli altri tre invece appartengono a una corrente di pensiero più progressista. Ma se il loro schieramento appare già scontato, lo stesso non si può dire dei sei più tradizionalisti. Come segnalato dal Washington Post, il giudice Neil Gorsuch, il primo designato da Trump nel 2017, in una sentenza del 2012 emessa dalla decima Corte distrettuale di cui faceva parte all’epoca, difese “l’interesse legittimo di uno Stato a proteggere l’integrità e il funzionamento del processo politico” che consente di conseguenza “l’esclusione dalla scheda di un candidato costituzionalmente interdetto dai pubblici uffici”.
Resta un enigma decifrare il pensiero gli altri togati, a eccezione dei due più conservatori Clarence Thomas e Samuel Alito. Brett Kavanaugh ed Amy Coney Barrett, scelti da Trump rispettivamente nel 2018 e nel 2020 per rimpiazzare Ruth Bader-Ginsburg e Anthony Kennedy, non si sono sempre dimostrati fedeli alleati dell’ex presidente: dalle tasse all’immigrazione, sono diversi i verdetti andati contro gli interessi e le politiche dell’ex presidente. È ancora più complesso interpretare la volontà del giudice capo John Roberts, il “centrista” della Corte, unico a non unirsi (almeno nella dichiarazione di voto) ai suoi colleghi nella sentenza Dobbs v. Jackson del 2022 che ha negato l’esistenza del diritto all’aborto nella costituzione. Insomma, a prescindere dai tempi – lunghi – della giustizia, non è detto che i tribunali federali diano ragione a Donald Trump, il quale rimane coinvolto in processi in Georgia, Florida e Washington, dove i capi di imputazione sono perfino più gravi.
Numerosi osservatori hanno paragonato questo momento al 2000, quando ci vollero 30 giorni e l’intervento urgente della Scotus per determinare il vincitore delle elezioni presidenziali. Tuttavia, allora il clima nel Paese era un altro: repubblicani e democratici non si odiavano e nessuno avrebbe mai immaginato che la situazione potesse degenerare. Ora l’America è una nazione più polarizzata le cui istituzioni hanno subito una forte regressione, per cui il ricorso alla violenza da parte delle frange estremiste appare una prospettiva inquietante ma allo stesso tempo, purtroppo, realistica.