Witold Gombrowicz, autoritratto d’artista

Witold Gombrowicz, autoritratto d'artista

Mi pareva di una bellezza schiacciante. Canadese, viso squadrato, intelligenza aggressiva, da Minotauro coi tacchi. Rita Labrosse incontrò Witold Gombrowicz (1904-69) nel centro culturale di Royaumont, abbazia del XII secolo a una trentina di chilometri da Parigi. Era il maggio 1964. Gombrowicz era rientrato in Europa l’anno prima, dopo venticinque anni di vita anonima, anomala in Argentina. Pareva uno scrittore «realizzato» la cosa, sentitamente, lo schifava. Rita, di trent’anni più giovane di Witold, si stava laureando su Colette. Lui le chiese di lavorare sulla sua opera. Se la portò a Vence, madido di mali; alla fine di dicembre del 1968 scelse di sposarla.

Quando l’ho intervistata, qualche anno fa, Rita mi ha spiegato che Gombrowicz «si definiva artista e non scrittore». Perché? Questione di dedizione. Di devozione. Diceva. «Chiunque può essere scrittore mentre per essere un artista bisogna avere personalità, fare un lavoro costante su se stessi. Gombrowicz è il contrario di uno scrittore impegnato come Sartre, che è al servizio della politica. L’artista secondo Gombrowicz è un purosangue feroce e indomabile». Dietro la redazione di Testamento, la magnetica autobiografia agiografica di Gombrowicz, c’è anche lei. La sfoggiava come un ambiguo amuleto come il tesoriere della sua sfacciata giovinezza.

Testamento, il libro più bello di Gombrowicz (stampato da Feltrinelli nel 2004, ritorna per il Saggiatore, pagg. 184, euro 22, nella consueta cura di Francesco M. Cataluccio), fu costruito insieme a Dominique de Roux, estroso direttore dei Cahiers de L’Herne, genio dell’editoria francese. L’idea era quella di realizzare una lunga intervista. Fiacco, gonfio, malato, Gombrowicz non ci sta. Non si fida dei microfoni, della libera conversazione. Vuole il pieno possesso delle parole. Così, si scrive l’intervista da sé: domande lieti pretesti e risposte-fiume. Il lavoro sulla soglia della morte fu micidiale. Con gli sfridi del monologo-apologo, specie di torrentizio trattato di letteratura dei bassifondi, un affondo contro la macchina del mercato editoriale, Gombrowicz sfornò un altro libello, l’eccezionale Corso di filosofia in sei ore e un quarto. Rita, al suo fianco, raffinava il tutto. De Roux, magnificato, pubblicava.

Testamento uscì nel 1968 come Entretiens avec Gombrowicz, a firma di De Roux, e l’anno dopo come libro autoriale di Gombrowicz, nel frattempo passato ad altri mondi (muore nel luglio del ’69). Gombrowicz se la canta, se la suona, parla del suo passato come della «coda nebulosa di una cometa», appiccica sul retro delle sue opere questa dida: «oscurità e magia». Sfotte Borges («Borges e io siamo agli antipodi. Lui è radicato nella cultura, io nella vita; anzi, io sono addirittura antiletterario»), sputtana la letteratura laccata dai letterati e la sincerità, letteralmente («Come scrittore, la temo come la peste. In letteratura la pura e semplice sincerità non serve assolutamente a nulla»). Quanto al pensare politico si dice «nemico del comunismo perché sto dalla parte del proletariato». Tuttavia, la politica, l’impegno sociale, la didattica buonista sono un cancro per chi scrive: «Lasciamo l’artista solo con la sua opera».

A Testamento andrebbe avvicinato un altro libro, Gombrowicz: la forma e il rito, scritto da Piero Sanavio nel 1974 per Marsilio. Sanavio, la cui vicenda giornalistica lo ha avvicinato, tra gli altri, a Ezra Pound lo andava a trovare nel reclusorio di Washington e a Céline, era sbarcato a Vence, da Gombrowicz, nel novembre del 1968, con una troupe Rai. L’attacco del suo racconto è memorabile («Monsieur Gombrowicz, un signore di media statura che spesso fuma la pipa, ha i capelli bianchi tagliati corti sulla nuca come un ex ufficiale e la pelle rossa di chi vive molto al sole. Asmatico. Ma non vive al sole, non esce mai di casa»). L’intervista sovrasta Gombrowicz, che si sente in trappola. A Sanavio, respirando a fatica, Gombrowicz confessa l’estrema verità. «Mi sento schiavo di un certo Gombrowicz che ho formato io stesso e forse adesso dovrei ribellarmi contro di lui ma farlo è difficile».

Chiunque consacri la propria vita all’arte sa di cosa parla Gombrowicz. Nel corpo dell’artista dimora un altro io, che lentamente lo flagella. Il godimento che ne segue per il povero moribondo è pari al dolore.

Comunque la si giri, Testamento è un capolavoro un libro che fa la festa ai libri per le feste.

A coronare il lavoro, nel 1971 Dominique de Roux costruisce il Cahiers de L’Herne che farà di Gombrowicz un autore di culto. A quel volume partecipa, tra l’altro, Piero Sanavio. De Roux morirà nel 1977: il figlio, Pierre-Guillaume, ne perpetuerà l’opera, perseguendo un’editoria eccentrica, decentrata. Con le sue edizioni ha pubblicato gli anticonformisti, i paria: Roger Nimier, Dominique Venner, Wyndham Lewis, Carl Schmitt, Ernst Jünger e l’Elogio letterario di Anders Breivik di Richard Millet, il saggio più ostracizzato del «più ostracizzato autore di Francia». Nel 2017 Le Monde definì Pierre-Guillaume de Roux «editore dei proscritti»; lui si diceva fiero di pubblicare «gli appestati della letteratura», tra i quali primeggia Gombrowicz.

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