La spiegazione è venuta un minuto dopo il disastro: è nostra responsabilità, ha detto l’esercito israeliano, è una tragedia e ve ne diamo conto. Ma è il cuore del dramma attuale che è ferito: il nesso fra la guerra e la questione dei rapiti. Tre giovani che cercavano di fuggire sono stati uccisi per sbaglio dalle truppe in guerra dentro Gaza, scambiati per terroristi. Peggio ancora di soffrire una ferita dal nemico, è il dolore inferto da una persona cara: e nessuno è più caro a Israele in questo momento dei soldati che 24 ore al giorno combattono a rischio della vita e perdono i loro compagni dentro Gaza. Ma nessuno è più importante degli ostaggi selvaggiamente trattenuti, comma coerente della strage del 7 ottobre, da Sinwar. Eppure è accaduto: ed è un paradosso quasi insostenibile quando sei in guerra, come è Israele, contro il più feroce di tutti i nemici. Il Gabinetto si è riunito, Netanyahu in un messaggio televisivo ha abbracciato le famgilie dei rapiti («piango con voi») e ha ribadito la fiducia nei soldati che rischiano la vita sul campo, e poi, anche in polemica con gli Stati Uniti, ha ribadito senza sconti la strategia oggi discussa duramente dalle famiglie e da parte del Paese: «Seguiteremo a combattere mentre ci impegniamo a riportare a casa i rapiti, ai nostri cari amici americani che ringraziamo dell’aiuto diciamo che l’Autonomia Palestinese che differisce da Hamas solo nei tempi, e non nel fine, non potrà prenderne il posto sulla Striscia. Saremo noi a controllarne la sicurezza in modo che non si possa minacciare la nostra vita».
Al di là dei programmi di lungo termine, il clima di contestazione è inquieto. Le famiglie dei rapiti hanno incontrato il Gabinetto protestando duramente. Il Paese aspetta un’accelerazione sui rapiti. Venerdì, mentre Hamas sparava 6 missili su Gerusalemme, tre ragazzi caduti nelle mani di Hamas dal 7 ottobre, Yotam Haim, di 28 anni, capelli rossi e mestiere di batterista, Alon Lulu Shamriz, 26 anni, un sorriso solare, studente di ingegneria dei computer, rapiti dal kibbutz Kfar Aza e Samar Talalka di 22 anni, beduino israeliano agricoltore nel kibbutz Nir Am, si sono trovati liberi nei vicoli di Gaza, fra le pallottole e la polvere della battaglia. Forse erano fuggiti, forse erano stati buttati nel mezzo dello scontro. Avanzavano, secondo il primo rapporto, senza camicia per segnalare di non essere terroristi suicidi, e con uno straccio bianco su un bastone: ma un soldato non si è fidato. Si tratta di un terreno su cui gli agguati nei vicoli e dai cunicoli sono continui, i soldati che combattono 24 ore su 24 dal 7 di ottobre hanno visto uccidere giorno dopo giorno 116 compagni. Hamas non indossa divise, i terroristi sono irriconoscibili, la tensione è terribile. Il soldato spara, uccide due delle persone che avanzano, il terzo ferito si nasconde nell’edificio da cui era uscito. Il cuore si spezza al racconto di come gridasse «Azilu», aiuto, in ebraico e non è stato sentito o creduto. Il comandante aveva ordinato l’alt vedendolo, ma quando è uscito un terzo soldato ha sparato lo stesso. La tragedia si è compiuta. Adesso si indaga, ma le famiglie chiedono in grande polemica col governo che ci si muova subito per un nuovo scambio, qualsiasi scambio collettivo: ciascuno, dicono, è in pericolo immediato di vita e non si riesce a recuperarli con lo scontro bellico, come ripete Netanyahu. Anche il capo di Stato Maggiore Herzi Halevi ha ribadito che l’errore è terribile, non si deve sparare di fronte a una bandiera bianca. Ma ha detto che la battaglia continua con determinazione. Un altro annuncio tragico giunto da dentro Gaza ieri è stato quello della morte nelle mani dei Hamas di una ragazza rapita alla festa di Reim, Inbar Haiman di 27 anni. Oggi i prigionieri sono ancora 128. I 105 tornati a casa, secondo Israele, sono stati scambiati perché l’esercito aveva colpito a tutta forza, Hamas aveva bisogno di tempo. A Oslo, il Primo Ministro del Qatar ha incontrato i maggiori rappresentanti della sicurezza israeliana, forse si arriverà a un nuovo accordo, certo Hamas chiede un alto prezzo per lo scambio. Può esigere la liberazione di un gran numero di terroristi di prima linea, chiedere una lunga tregua con cui rimettersi in piedi e restare al potere. La scelta è, comunque, sempre fra lasciare sopravvivere un’organizzazione come l’Isis o combatterla a prezzi anche molto amari.