Ora nel Pd è panico da voto. Rischio batosta alle Europee

Se i leader della vecchia scuola sono l'unica voce del Pd di Elly

C’ è la leader che chiude la sua contro-Atreju gridando dall’immaginario loggione: «Viva l’Italia antifascista!», che rimpiange i «pensieri lunghi di Berlinguer» sul «sol dell’avvenire» e invoca un «green-deal col cuore rosso». C’è la consigliera comunale padovana, Etta Andreella, che esordisce dando il «buongiorno a tutte, a tutti e a tuttu», hai visto mai ci fosse qualche minoranza un po’ gutturale che si identifica nella U.

E c’è Laura Boldrini (una dei tanti aspiranti candidati alle Europee che affollano la sala, c’è persino la «sardina» Jasmine Cristallo) che afferma che il «tema identitario» del Pd deve essere «la pace», «dobbiamo essere il Partito della Pace e non regalare ad altri (leggi: i filo-russi di M5s, ndr) la bandiera». E Elly Schlein le dà ragione, serve un Pd che «si riappropri della parola pace».

É questo tormentone della riscoperta della «pace» purchessia, ripreso da tanti che sfilano sul podio del convegno su «L’Europa che vogliamo», il leit motiv carsico della due giorni dem negli Studi ex De Paolis sulla Tiburtina. Col risultato di dimostrare quanto precipitosamente il Pd si stia allontanando – senza dirselo apertamente – dalla linea che i suoi più prestigiosi esponenti istituzionali (Mattarella e il commissario Ue Gentiloni, che venerdì ha pronunciato l’intervento pro-Ucraina e pro-Occidente più alto e politico di questa kermesse) hanno segnato.

La ragione è assai più prosaica che etica. Nelle file Pd circola un panico sempre meno controllato: quello di una batosta alle Europee, e persino di un sorpasso da parte del M5s. Che proprio del «pacifismo» anti-ucraino (e anti-Israele) ha fatto il proprio vessillo, convinto di poter così rubare voti a destra, grazie al fermo atlantismo di Meloni, e nella sinistra stanca di guerra. Il consigliori di Conte, Rocco Casalino, ieri ha irriso apertamente Elly («Con lei Giuseppe dorme tranquillo, non sa comunicare»), a dimostrazione che la guerra è ormai aperta, altro che campi larghi. «Un compito aveva Schlein, quello di togliere voti ai 5S. Se non fa neanche questo…», avverte un dirigente Pd.

Lei sa di essere sempre più sub iudice, per questo ha insistito moltissimo perché al suo evento venissero i big del passato a darle credibilità: la neo-anticapitalista Bindi, Letta (che parla ma si tiene lontanissimo dalla politica), Veltroni (assente), Prodi. L’ex premier ha resistito, ha ceduto senza entusiasmo, ha fatto un discorso assai più vago e meno netto di quello di Gentiloni e poi ha buttato là una benedizione a doppio taglio: «Elly? può essere il federatore del centrosinistra. Il problema è se si fa federare». Come dire: non c’è trippa per gatti. Poi, con un certo paternalismo (patriarcale?) sgrida Meloni: «Sta con Budapest o con Bruxelles? Si decida, signora, si decida».

Schlein sa che l’unica arma per tenere a bada un partito sempre più preoccupato e malmostoso sono le liste elettorali: finché non decide le candidature, nessuno dichiarerà guerra. Quindi non decide. Nemmeno sulla sua: aspetta che Giorgia Meloni annunci se sarà in campo da capolista. Spiega un suo parlamentare: «Non vuole contarsi contro la premier. Se c’è Giorgia, difficilmente ci sarà Elly».

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