C’è un derby che scuote la magistratura italiana dalle fondamenta, con esiti imprevedibili. Partiamo da Piercamillo Davigo e dal suo show a senso unico da Fedez al Muschio Selvaggio. Tra le macabre contumelie sparate contro Bettino Craxi, Silvio Berlusconi e i suicidi di Tangentopoli («Mi è spiaciuto perdere delle fonti di informazioni») Davigo ha anche sparato a palle incatenate contro la Procura di Brescia: «Lì le cose non sempre le capiscono, per questo mi hanno condannato» in primo grado per rivelazione di segreto d’ufficio nel caso Eni-Amara-Loggia Ungheria, è stato l’affondo dell’ex magistrato. Fedez e il suo socio podcaster Mr Marra sono rimasti zitti, si è mosso il presidente della Prima commissione del Csm Enrico Aimi: «Da Davigo un attacco all’autonomia e al prestigio della magistratura, nonché un atto denigratorio del lavoro svolto negli uffici giudiziari di Brescia, ancor più inopportuno visto il giudizio pendente in corso». Il tribunale della città lombarda ha infatti la competenza sui pasticci dei magistrati milanesi legati alle accuse ad alti magistrati del superteste Pietro Amara, considerate prima credibili poi carta straccia. Brescia non le manda a dire: «Il Tribunale manifesta vivo stupore e sconcerto» per i «pesanti giudizi» che «costituiscono incomprensibile negazione del rispetto dovuto alla giurisdizione tout court, doveroso ed esigibile soprattutto da chi ha indossato la toga per oltre quaranta anni”.
Che quella di Davigo non sia stata un’intemerata a sorpresa ma una scelta precisa e ponderata lo sottolinea lo stesso Caimi; «Sorprende che un magistrato così esperto rilasci dichiarazioni che minano la credibilità dei giudici interessati e dell’intero ordine giudiziario», proprio quello che Davigo dice di voler difendere da politica e lobby potentissime.
Ma c’è anche un altro fronte incandescente. È quello aperto dall’ex consigliere della Corte costituzionale Nicolò Zanon. Mercoledì scorso alla presentazione del libro La Gogna di Alessandro Barbano su l’Hotel Champagne e le trame tra Luca Palamara, Luca Lotti, Cosimo Ferri e altri cinque consiglieri del Csm, Zanon ha rivelato che una sentenza della Consulta avrebbe fatto strame della Costituzione pur di non mandare in vacca i processi in corso al Csm e in Cassazione contro quei protagonisti. Le conversazioni captate grazie al trojan inoculato sul cellulare dell’ex leader Unicost per un’accusa (la corruzione) poi caduta quasi subito, anziché finite sui giornali avrebbero dovuto essere distrutte perché irrispettose delle guarentigie costituzionali di Lotti (uomo di Matteo Renzi) e Ferri, magistrato a riposo e leader di Magistratura indipendente eletto in Parlamento. «È stata la più grande rivelazione del segreto d’ufficio della storia giudiziaria d’Italia», ha scritto Barbano nel suo volume.La Consulta per preservare quelle conversazioni stabilì invece un precedente che per Zanon «ha messo la Costituzione sotto i tacchi»: per intercettare un parlamentare basta non indagarlo. Quella sentenza avrebbe dovuto avere un altro relatore, Pietro Modugno, che oggi è il numero due della Consulta guidata da qualche giorno da Augusto Barbera. Al suo posto a firmare la sentenza è stato Stefano Petitti di Md, guarda caso la corrente delle toghe che ha incassato il miglior dividendo dai guai di Palamara e Ferri. Liana Milella su Repubblica aveva anticipato che la sentenza avrebbe dato ragione a Ferri, l’allora presidente Silvana Sciarra la smentì. E oggi sappiamo perché. Sul suo blog la Milella accusa Zanon di aver commesso un reato «perché di centrodestra», di fatto rafforzandolo anziché smentirlo. Per Barbera, dal ’76 al ’94 sugli scranni Pci-Pds, una bella gatta da pelare.