Se lo faranno bene non sarà solo un processo: sarà anche la istruttiva ricostruzione di come dentro una grande azienda di Stato possa nascere e prosperare una sorta di contropotere, un gruppo legato da interessi illeciti in grado di imporre le proprie scelte alla governance ufficiale. Dal prossimo 22 febbraio a Milano saranno processati i dodici uomini accusati a vario titolo di avere tramato all’interno di Eni, il colosso energetico di Stato, fino a mettere nel mirino il suo amministratore delegato Claudio Descalzi. Le accuse sono di associazione a delinquere, calunnia e truffa.
Il più noto tra gli imputati è Pietro Amara, l’avvocato siciliano che chissà come, nonostante un curriculum giuridico non elevatissimo, riuscì a farsi affidare da Eni incarichi professionali per milioni. Intorno a Amara, una compagnia di giro dalle origini non sempre chiare, come il giovane imprenditore Francesco Mazzagatti, che riesce anche lui a ottenere ricchi affari dal cane a sei zampe (compresa la fornitura di un carico di greggio iraniano, e quindi colpito da embargo, spacciato per iracheno).
Ora anche Mazzagatti viene rinviato a giudizio insieme ad Amara e a altri suoi collaboratori. Insieme a loro vanno a processo i due ex manager Eni accusati di essere i referenti della cricca all’interno del gruppo: l’ex capo dell’ufficio legale Massimo Mantovani e l’ex numero tre Antonio Vella. Secondo la tesi della Procura, buona parte delle manovre compiute da Amara e dal suo sodale-collega Vincenzo Armanna erano finalizzate soprattutto a tutelare Mantovani e Vella, i loro sponsor all’interno del gruppo. E a colpirne i potenziali rivali.
Nascono così le false accuse contro l’amministratore delegato Claudio Descalzi, il capo del personale Claudio Granata, i manager Massimo Insulla e Lorenzo Fiorillo. Descalzi viene accusato di avere premuto su Amara perché ritratti almeno in parte le accuse messe a verbale davanti alla procura di Milano sulle presunte tangenti in Nigeria. Il problema è che Amara venne preso per buono, e Descalzi e i suoi collaboratori furono indicati come gli ideatori di un diabolico complotto ai danni della Procura di Milano. Teorema sostenuto dalla Procura stessa, a partire dal pm Fabio De Pasquale (anche se per legge il fascicolo avrebbe dovuto essere trasferito a Brescia).
Ci vollero anni, e l’ostinazione di un altro pm, Paolo Storari, perchè la Procura di Milano cambiasse linea, si convincesse che Amara e Armanna mentivano, archiviasse le accuse a Descalzi e chiedesse di mandare a processo per calunnia i due avvocati siciliani e i loro presunti mandanti. Sia Mantovani che Vella rifiutano il ruolo che viene loro attribuito, il primo parla di «accuse di labilità e inconsistenza sconcertanti»: e che Amara e Armanna possano avere agito di loro iniziativa, per tutelare i loro referenti ma senza averne ricevuto incarichi specifici, è possibile. Si vedrà al processo. Ma ciò che dagli atti emerge in modo netto è che lì, nei piani alti del potere Eni, i due mestatori avevano legami e appoggi. Da lì, dall’attivita di quel grumo di potere, nasce tutto. Comprese le ultime dichiarazioni di Amara, quella sulla «Loggia Ungheria» composta da politici, giudici e generali che gli sono già costate un altra accusa di calunnia.
(Che il processo ai dodici inizi davvero il 22 febbraio in realtà non è sicuro, perché due giorni prima la Cassazione potrebbe decidere che Milano non è competente. E il fascicolo potrebbe finire a Potenza, o a Brescia, o a Roma. O nell’iperspazio).