L’affaire Tim-Vivendi finisce in tribunale come annunciato, ma l’operazione va avanti senza ritardi e interruzioni. La vendita della rete a Kkr procede quindi spedita fino al suo perfezionamento, che dovrebbe avvenire – a meno di colpi di scena – entro l’estate del 2024.
La società transalpina guidata da Arnaud de Puyfontaine ha ieri effettivamente presentato il ricorso con il quale ha chiesto l’annullamento della delibera con cui il consiglio di amministrazione, lo scorso 5 novembre, ha ceduto al fondo americano, per 22 miliardi complessivi, la società NetCo a cui fa capo la rete e della quota di Fibercop a Kkr. E anche di dichiarare l’inapplicabilità nei confronti Tim dell’accordo transattivo firmato il giorno dopo e di ogni accordo attuativo della delibera.
Ma nel ricorso – che fissa come data d’udienza il 22 aprile (il giudice Angelo Mambriani del tribunale civile potrà poi decidere di modificare questa data fino a un ritardo massimo di 45 giorni) – non è contenuta la richiesta cautelare, né l’inibizione in via d’urgenza della esecuzione della delibera e degli atti negoziali conseguenti.
E così, conferma Tim in una nota, le attività previste dagli accordi con Kkr finalizzate al closing dell’operazione proseguiranno, secondo quanto previsto, senza ritardi o interruzioni. Alla notizia dell’assenza di una richiesta di provvedimento cautelare, dovuto – come è stato spiegato da fonti giudiziarie, all’assenza di periculum in mora da tardività – Tim è volata in Borsa e il titolo è schizzato a +5,3% a 0,28 euro.
A questo punto l’impressione, confermata da fonti finanziarie e legali, è che la posizione assunta da Vivendi con questo tipo di ricorso, privo di richieste cautelari, esprima una nuova «postura», non radicale, che a ben vedere trova nella nota emessa da Tim una porta, se non aperta, almeno socchiusa. In altri termini gli spazi per un dialogo, fino adesso pochi o nulli, resterebbero possibili, per ripianare il contrasto e trovare una soluzione accettabile sia per la società, sia per il suo principale azionista con il 23,75% del capitale.
Non a caso nella nota di Tim si fa presente che «l’iniziativa di Vivendi (pur preannunciata da mesi al mercato con effetti sull’andamento dei corsi di Borsa), si fonda su argomenti che la società ha già analizzato in dettaglio al momento dell’approvazione dell’operazione e che un confronto prodromico, pure più volte ricercato dalla società, avrebbe forse aiutato in una migliore comprensione della vicenda e della sua legittimità ed evitato di prolungare nel tempo un clima di incertezza ed instabilità a danno degli azionisti e degli altri stakeholders di Tim». Un invito al dialogo? Lo vedremo nelle prossime settimane, visto che di qui al 22 aprile il tempo non manca. Di certo una soluzione che preveda, per esempio, un’uscita onorevole per i francesi (che in Tim stanno perdendo tre dei quattro miliardi che hanno investito), avrebbe il vantaggio per Vivendi di contenere i danni in limiti accettabili e per Tim di andare avanti su Netco spedita, senza gli ostacoli di un contenzioso e senza gli elevati costi tradizionalmente chiesti da legali e consulenti.
Tornando al ricorso, sono due i profili principali con cui Vivendi chiede l’annullamento della delibera e l’inapplicabilità dell’accordo. In primis si chiede di vagliare lo statuto di Tim, per valutare se il cda – mutando l’oggetto sociale della società che cede una parte della sua rete – avesse il potere di deliberare in merito alla vendita senza passare dall’assemblea dei soci straordinaria, un contesto in cui Vivendi avrebbe potuto bloccare l’operazione.
Il secondo profilo, secondo la tesi francese, riguarda invece il fatto che l’operazione dovesse essere sottoposta al comitato parti correlate, come da regolamentazione Consob, per la presenza del Mef, azionista di Cdp peraltro presente nell’azionariato di Tim.