Ma la Juventus del ’96 è stata la più forte di tutte?

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La Juventus è da sempre divisiva. Chi non la sostiene, la odia ferocemente. Chi la tifa si ritrova comunque esattamente scisso a metà: vincere è l’unica cosa che conta, incalzano alcuni. Ma no, se giochi male poi in Europa paghi un conto salato, li rintuzzano altri. Che poi, oggi, questo contrasto intestino si riverbera nella fazioni opposte degli allegriani e dei detrattori di acciughina.

Ma scrutando questa attempata dama che adesso torna, dopo anni faticosi, ad occupare i piani più nobili del campionato, le domande si moltiplicano. Di sicuro, anche se si sta risollevando, non è questa la versione migliore del club. Non se guardiamo agli ultimi vent’anni, almeno, se consideriamo quel primo Max che si muoveva con disinvoltura in Champions e quella rimpinzata di titoli. Chiedersi quale possa essere stata la rappresentazione più rutilante di questa squadra è un giochino divertente, quanto sprovvisto di controprova. Eppure, scendendo ancora più indietro nel tempo, un gancio per sfilarsi da divagazioni senza costrutto si trova.

Maggio 1996. Stadio Olimpico di Roma. L’ultima Champions bianconera, vinta sudando, ai rigori, contro l’Ajax di Litmanen e degli altri fenomeni. Ecco, se volessimo davvero dare corda al divertissement – e giunti a questo punto pare chiaro che lo vogliamo – potremmo chiederci se non sia stata davvero quella, la Juventus migliore di tutte. Prendiamo i fatti, dissezionando bene la questione.

In panchina c’era Marcello Lippi, uno che sapeva flirtare con le coppe e che comunque, quell’anno, sarebbe arrivato secondo in campionato. Poi avrebbe pure vinto la Supercoppa italiana. Quando Jugovic stappa il deliquio juventino con quel penalty angolatissimo – l’interminabile Van der Sar si allunga ma la sfiora soltanto – quella che sta conducendo è una corazzata. In porta c’è Tyson Peruzzi, riflessi da lince e coraggio in abbondanza. Davanti a lui, nel 4-3-3 ampio tratteggiato da Marcello, si stagliano Pietro Vierchowod e Ciro Ferrara. Come andare a sbattere contro un muro di granito. Il terzino sinistro è Pessotto: d’accordo, il più ordinario dell’ensemble, ma comunque uno che non conosce sbavature. Sull’altro lato fluttua Moreno Torricelli, l’ex falegname che si è sorpreso troppo abile con il pallone per gingillarsi tra seghe e martelli. Lui viaggia a tutta fascia, sbuffando contro quella capigliatura intricata.

Poi ci sono i tre di centrocampo. Il portoghese Paulo Sousa fa il registra arretrato e sai che consegnargli la sfera significa metterla in ghiaccio, ma puoi anche aspettarti un lancio vellutato, di quelli che imburrano le retroguardie avversarie e preludono al gol. Al suo fianco strilla come un forsennato Antonio Conte, un distillato di dinamismo, capacità di interdizione, inserimenti velenosi, botte da fuori. Il terzo è il più compassato e svolge pure il lavoro più oscuro, ma è ossigeno autentico lì nel mezzo. Si chiama Didier Deschamps e sa fare praticamente tutto quello che serve, sempre con una formidabile calma.

Poi c’è la batteria degli addetti a disgregare le difese altrui. Fabrizio Ravanelli, che segna un gol da un pertugio impensabile in finale, è un predatore d’area perennemente assetato. Gianluca Vialli, il capitano, cuce il gioco, fa salire la squadra e segna gol ingombranti. Poi c’è il capitano futuro, Alex Del Piero, fuoriclasse che ha già fatto sgranare le pupille di mezza Europa con quelle sue qualità debordanti. Girandosi verso la panchina, Lippi poteva far alzare Di Livio o Jugovic, Porrini o Carrera, Tacchinardi o Marocchi. Una squadra coesa e profonda.

Ma c’è stata la Juve di Platini, si obietterà, e poi quella di Sivori, Zidane o Cristiano Ronaldo. Confutazioni ineccepibili, così come impossibile è dotarsi di un metro di giudizio. Quello appartiene al cuore o all’obiettività disamorata di chi legge. Quella Juve del ’96, però, farebbe vacillare di sicuro chiunque.

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