Le speranze vane di una pace con Hamas

Le speranze vane di una pace con Hamas

Mentre Jake Sullivan, consigliere strategico di Biden, tesseva ieri la sua tela di speranza di pace a nome del presidente degli Stati Uniti prima a Gerusalemme con Netanyahu, Gallant e tutto il gabinetto, e poi a Ramallah da Abu Mazen, Hamas si è fatto vivo: ha sparato sei missili su Gerusalemme, di cui quattro bloccati da Iron Dome, uno caduto su un edificio a Beith Shemesh. Ma l’ultimo, per un espressivo scherzo della sorte, mentre qui a Gerusalemme correvamo nei rifugi con le famiglie in casa per la serata di Shabbat, è finito sull’ospedale di Ramallah. Così Hamas ha fornito un’ulteriore tessera che può far capire a Sullivan come stanno le cose: la sua ferocia ideologica contro i cittadini di Israele non ha mai fine, molto oltre il campo di battaglia, dentro le case. È apparsa ancora più ridicola la ciarlataneria di Mousa Abu Marzuk, uno dei «pragmatici» di Hamas, che ha detto che forse si potrebbe, in modo da rientrare nei ranghi militanti dell’Olp, riconoscere Israele. Due menzogne in una, la prima percepibile a prima vista: Hamas è nato per uccidere uno a uno gli ebrei, è scritto nella sua Carta. In secondo luogo perché l’Olp alla fine non ha mai riconosciuto Israele. Hamas dopo quello che ha fatto il 7 ottobre può piacere solo a chi vuole distruggere la civiltà occidentale e uccidere gli ebrei. Non a Biden.

Il consigliere ha spiegato come gli Usa siano vigorosamente al fianco di Israele in guerra e per gli ostaggi, ma si aspettano un rallentamento delle operazioni, chiedendo precisi «stadi» in discesa a partire dalla prima settimana di gennaio; e che ci si avvii verso un piano per il day after che al centro metta l’Anp di Abu Mazen. Questo, come prolusione a un recupero del disegno dei «due stati per due popoli». Ma Hamas l’ha mandato a dire anche ieri: un declino programmato non fa fronte all’accanimento con cui, per esempio, da Gaza si sparano missili che danno la caccia ai cittadini di Gerusalemme. I lanciamissili, le riserve missilistiche, sono state preparate da Sinwar per una lunga guerra di posizione; il rallentare, darsi delle scadenze, cedere al ricatto dell’uso dei cittadini come scudi umani è apprezzabile per il rispetto della gente di Gaza, ma non consente la conclusione della missione. L’insistenza americana porta risultati, come per esempio l’apertura del valico di Kerem Shalom per far entrare duecento camion di rifornimenti; crea più attenzione nel favorire l’evacuazione della gente, anche se Hamas seguita a impedirla. Ma i dieci soldati uccisi due giorni fa sono stati assaliti da dentro una scuola… tutto è ancora Hamas. Quanto al Fatah di Abu Mazen cui, sia pure in versione «riabilitata», Sullivan guarda disegnandolo come un futuro partner, Hamas ormai in Cisgiordania lo schiaccia. Gli israeliani in battaglia due giorni fa a Jenin hanno scoperto una quantità senza precedenti di armi pesanti e fatto 70 prigionieri sospetti di Hamas. Secondo il Palestinian Center for Policy Survey and Research (Pcpsr), il 72% dei palestinesi sono d’accordo con quello che Hamas ha fatto il 7 di ottobre, e fra questi, l’85% nel West Bank; il supporto per Hamas è triplicato. Il 60% dei palestinesi chiede le dimissioni di Abu Mazen.

Gli Usa giocano quindi una partita molto rischiosa, la stessa che si è lasciato che Hamas giocasse fino alla trasformazione in belva. Si capisce che Biden debba giocare una carta pacifista adatta al suo elettorato a fronte di un’opinione pubblica di cui l’Onu cinicamente si fa portabandiera, quella della tregua a costo della vita di Israele. Israele certo non vuol perdere il rapporto con Biden, ma quante vite dei suoi soldati in una guerra rallentata questo può costare? E quanto alla fine, questo conviene agli Usa stessi?

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