La scuola era uno svago. Il brutto veniva dopo, quando tornava a casa e ripiombava all’inferno: minacce, sofferenza, paura, liti, aggressioni. C’era questo nella vita di Alex prima del 30 aprile 2020, quando ha ucciso il padre per salvare la mamma. Si chiamava ancora Pompa, allora, poi ha preso il cognome materno, Cotoia, per tagliare definitivamente i ponti con il passato. Un passato vissuto in ostaggio di un uomo «ossessivo, violento e paranoico».
L’indomani della sentenza d’appello che – dopo l’assoluzione in primo grado per legittima difesa – lo ha condannato a sei anni e due mesi per l’omicidio del padre Giuseppe, il 23enne si racconta in una puntata del podcast One More Time con Luca Casadei disponibile su tutte le piattaforme di streaming audio, registrata quando ancora non sapeva che l’assoluzione non sarebbe stata confermata. Alex ricorda quando il papà lo prendeva per il collo e lo stringeva forte, lasciandogli i segni che poi lui «copriva con il fondotinta» perché non voleva che gli altri lo compatissero. Un incubo cominciato quando era bambino, a sei anni il primo calcio, in una spirale di violenza che non si è mai fermata. Con liti e aggressioni quotidiane e un’ossessione per la moglie, che controllava di continuo e cercava di emarginare il più possibile. «A volte utilizzava la cinghia, poi andava a prendere i coltelli e ci minacciava», racconta Alex. Nonostante tutto, però, il ragazzo, suo fratello e la mamma non hanno mai denunciato. Per paura: «Ci diceva i carabinieri non arrivano in tempo e vi ritrovano tutti morti. Vi faccio a pezzettini». Piuttosto avevano pensato di fuggire in Danimarca, ma mancavano i soldi, perché il padre aveva il controllo anche sulle finanze familiari e comunque temevano che lui li avrebbe trovati ad ogni costo.
Si arriva così alla sera della tragedia. «Quella notte mio padre era diverso, voleva ucciderci tutti». Ma l’ennesima lite va a finire in un altro modo. Per difendere la madre Alex accoltella il papà e poi si costituisce. Un macigno sulla sua coscienza. Pentito? «Assolutamente sì». «È veramente difficile alzarsi e portare sulle spalle il peso di aver ucciso tuo padre per salvare la tua famiglia. Sono ancora tanto giovane per vivere tutta la vita con questo peso enorme. Un ergastolo, non dal punto di vista giuridico, ma psicologico», dice Alex. Tre giorni fa, poi, è arrivata anche la mazzata dei giudici, che non hanno riconosciuto la legittima difesa e lo hanno condannato a sei anni, due mesi e venti giorni. Se la Cassazione confermerà la sentenza dovrà andare in carcere. Un’eventualità che certo lo spaventa: «Ho fame della vita. Mi spiacerebbe per il tempo perduto, in cui non potrei costruire rapporti e relazioni. Sarebbe veramente brutto, un tarparmi le ali». Al momento, poi, c’è anche un risvolto del processo da affrontare. La Corte ha infatti trasmesso gli atti in Procura perché vengano valutate le testimonianze rese dalla mamma e dal fratello. In primo grado erano state considerate affidabili. Ora chissà. Intanto Alex, lo dice nel podcast, sta cercando di capire come il padre fosse diventato così «violento e tossico».