L’assist, a sorpresa, lo fornisce un europeista a 24 carati, nonché ex presidente del Consiglio, come Mario Monti: «Questo patto di stabilità non è accettabile, è un’Europa con lo specchietto retrovisore», scandisce dai banchi del Senato rivolto a Giorgia Meloni. Poi lancia l’amo: «Sarei lieto se lei in caso di necessità usasse il veto».
La premier prende l’occasione al volo: la trattativa, dice, è ancora «molto complessa», anche se ci sono «degli spiragli». La posizione italiana, quindi, «si deciderà alla fine» del negoziato, sapendo «chiaramente che se non si trova un accordo, torniamo ai precedenti parametri». Ma Meloni non vuole «escludere nessuna delle scelte», veto incluso. Il segnale ai partner Ue è inviato. Ma nel secondo round parlamentare alla vigilia del Consiglio europeo, Giorgia Meloni sceglie un facile punching ball polemico su cui focalizzare l’attenzione, anche per oscurare il ricordo dell’incidente del giorno prima con Mario Draghi.
Il bersaglio, sicuramente più a portata di mano dell’ex presidente della Bce (con cui anzi Palazzo Chigi assicura ci siano stati contatti e scambi di «messaggi» nelle ultime ore), diventa Giuseppe Conte, e i guai lasciati in eredità dai suoi governi agli italiani. L’attacco al grillino culmina nel coup de théâtre del fax sventolato in aula, a riprova del fatto che fu proprio lui, già dimissionario e «alla chetichella», a dare via libera alla firma del nuovo trattato Mes di cui oggi si dichiara fervente nemico. L’emiciclo di Palazzo Madama esplode, tra standing ovation a destra e urla di protesta dei Cinque Stelle. Ma Meloni ne ha anche per «i superbuffi del Superbonus, che pesano come macigni» sui conti italiani. «Qualcuno – accusa – dovrà fare i conti con la propria coscienza per questo regalo a truffatori e criminali». Poi l’attacco sul Pil: Conte si vanta del «rimbalzo» post-pandemia. Ma «si chiama dead cat bounce», infierisce la premier: «Persino un gatto morto rimbalza se lo butti dall’ultimo piano». Il Pil era «talmente sprofondato» che, dopo il Covid, era matematico che risalisse: «Non è una cosa di cui mi vanterei», al posto di Conte. E poi le armi a Israele: M5s ingiunge al governo di non venderle, peccato che «il governo Conte sia quello che ha fornito più armi di tutti a Israele». La difesa, affidata dall’ex premier alla fida Barbara Floridia, è quantomeno zoppicante: «Sì, ma all’epoca Israele mica era in guerra con la Palestina», grida lei. In aula c’è chi si mette le mani nei capelli e chi ridacchia. Conte comunque gongola: il ruolo di nemico pubblico numero uno lo fa sentire protagonista, ai danni dei rivali Pd.
Su Draghi, invece, Meloni (che proprio ieri ha parlato con il presidente ucraino Zelensky, e annunciato l’incontro a Roma col premier britannico Sunak) innesta la retromarcia: nessun «attacco», anzi «grande rispetto per la fermezza» con cui Supermario gestì crisi epocali come quella in Ucraina. Ma, rivendica vibrante, «il nostro governo ha riportato l’Italia al centro dell’Europa, e molti me lo riconoscono anche se non lo dicono apertamente». Dall’opposizione sfotte Matteo Renzi: «Retorica che non funziona: invece di attaccarlo, cerchi di copiare Draghi, e il prestigio che ha portato al Paese: non può che farle bene». Mentre Carlo Calenda le ricorda che «l’auctoritas di Draghi non dipendeva dalle cariche ma dall’autorevolezza personale». Poi affonda sul Mes: «Piantatela di rimpallarvi accuse deliranti, sapendo che dovrete comunque ratificarlo: portatelo in aula e facciamo ‘sto Mes».