Odio di gomito. Carlo De Benedetti è fatto così, prendere o lasciare. E lui ha preso (aziende sane) e ha lasciato. Macerie. Ora, di fronte a famiglie che hanno successo alla faccia sua, mastica amaro. Perché lui è «un fallito», e neanche di successo. Una verità certificata da un tribunale, che ha dato ragione all’ex numero uno di Pirelli e Telecom, Marco Tronchetti Provera, che tale l’aveva definito, «un fallito», una delle tante cause (perse) intentate da CDB nel corso della sua ultraottuagenaria vita. Costellata di una miriade di flop, sia industriali sia politici: Olivetti, Kataweb, Omnitel, Sorgenia, Buitoni-Perugina e il pasticcio Iri-Sme, il fango dopo il crac del Banco Ambrosiano costata una condanna, la tessera numero 1 del Pd, partito che ha contribuito ad affossare. «Devo fare in una generazione quello che altri hanno fatto in tre». C’è riuscito, distruggendo tutto quello che trovava.
Da uno del genere meglio essere odiati che amati. I suoi endorsement sono considerati mortali: citofonare Romano Prodi, l’amico che gli consentì di creare il polo alimentare da presidente dell’Iri a cui portò sfortuna sulla strada del Colle. O al plauso a Massimo D’Alema prima e Walter Veltroni poi, entrambi finiti nell’oblio. E che dire dell’infatuazione sua e di Eugenio Scalfari per «l’intellettuale della Magna Grecia» Ciriaco De Mita o Matteo Renzi («Un fuoriclasse»). L’ultima vittima è Elly Schlein, che ancora impreca per il suo epitaffio. Disse che non avrebbe mai vinto («figura interessante, non una leader») poi saltò sul suo carro arcobaleno: «È meglio di quel poveretto di Enrico Letta, ha tutte le doti per far bene». Oggi De Benedetti al Foglio ha in qualche modo rivendicato quelle parole: «L’ho appoggiata e anche aiutata in qualche modo». Appunto.
La coerenza non è mai stata una sua virtù. Tuona contro chi evade poi prende la cittadinanza svizzera. «Pago le tasse lì ma faccio beneficenza in Italia», tuonò una volta in tv. Facile essere generosi col maxi-risarcimento di 500 milioni di euro pagati dal suo storico nemico Silvio Berlusconi per il lodo Mondadori, uno dei tanti misteri di questa disastrata giustizia che odora di vendetta, fin troppo cieca con i suoi nemici e a volte fin troppo generosa con lui, vedi l’assoluzione in Appello dopo la condanna in primo grado per lo scandalo amianto all’Olivetti di Ivrea, con i suoi dipendenti vittime del talco alla tremolite che respirarono fino al 1986. L’intemerata contro casa Agnelli e quel che resta di Repubblica è comprensibile e in parte condivisibile. Allora fu felice l’intuizione di Scalfari, che per CDB era «un ingrato». E poi, critica la gestione di John Elkann della sua ex Gedi ma dimentica che la Fiat aveva strapagato la sua Gilardini, mettendoselo in casa e cacciandolo dopo 100 giorni nel 1976. Scherzi dell’età, succede…
Anche altri suoi presunti epitaffi oggi fanno sorridere: «Trump? Un pazzo furioso». Sarà anche pazzo, ma le elezioni le ha vinte. Pierluigi Bersani è passato dall’essere «sempre il migliore» a diventare «inadeguato», come Letta. Altro fiele su Giorgia Meloni, che «dimostra demenza sull’immigrazione» perché «è una scolaretta incipriata che ha rinnegato tutto». Ogni tanto qualche intemerata è andata a segno: «M5s rovina il Paese, a Beppe Grillo dà fastidio il giornalismo non genuflesso». Ma qual era la colpa dei Cinque stelle? Aver acceso i riflettori sulla telefonata tra De Benedetti e il suo broker Gianluca Bolengo di Intermonte del 16 gennaio 2015, nella quale l’Ingegnere avrebbe dichiarato: «Compra titoli, la legge (sulle banche popolari, ndr) passa. Me l’ha detto Renzi».
L’editore del Domani guadagnò 600mila euro, il broker anni dopo venne assolto dall’accusa di insider trading. CDB si è sempre difeso dicendo che quello «era un segreto di Pulcinella, ne parlavano tutti», disse. Ma ci guadagnò solo lui.