“All’inferno ogni minuto dura un’eternità”. Sono alcune delle parole tratte dallo straziante appello di Ayelet Levy Shachar, una madre per la quale il tempo da oltre due mesi si è fermato. Sua figlia, Naama Levy, 19 anni, è stata fatta prigioniera dai terroristi di Hamas e adesso, se ancora in vita, è da qualche parte nascosta negli infiniti tunnel di Gaza. “Riportatela a casa, adesso”, un urlo quello di Ayelet che lei stessa definisce “primordiale”, come “dovrebbe essere l’urlo di tutte le madri, in ogni angolo del pianeta”.
La discesa nell’inferno per Naama comincia alle prime luci dell’alba del 7 ottobre. Da qualche giorno la giovane donna aveva terminato il corso per diventare una soldatessa addetta alle osservazioni nel kibbutz di Nahal Oz. È nella base militare nei pressi di quel villaggio che gli islamisti l’hanno rapita. I suoi ultimi momenti in territorio israeliano sono stati immortalati in un video. Ammanettata e insanguinata sul pianale di una jeep, in alcuni frame volge lo sguardo a chi sta filmando con gli occhi atterriti. Non sa che in quelle ore si sta consumando la peggiore strage contro il popolo ebraico dai tempi della Shoah.
“L’hanno visto tutti”, dice la mamma, “l’avete vista mentre l’afferravano per i lunghi capelli castani e la trascinavano (…). Forse avrete notato le ferite alle caviglie, i piedi nudi e la sua andatura zoppicante. È gravemente ferita”. La mattina della strage le aveva mandato un messaggio su WhatsApp “ci siamo rifugiati nella stanza blindata”. Per Naama il silenzio più agghiacciante comincia allora. Ayelet lo rompe scagliandosi contro un altro silenzio, quello delle Nazioni Unite e delle organizzazioni femministe che “si sono rifiutate di prendere atto degli stupri e degli atroci crimini sessuali commessi da Hamas contro le donne, solo perché le vittime sono ebree. Ci sono voluti due mesi per vedere finalmente riconosciute le dimensioni e la brutalità della loro aggressione”.
Tra gli oltre 100 ostaggi ancora nelle mani dei terroristi ci sarebbero anche 17 donne. Ayelet riporta quanto dichiarato ai giornalisti del Washington Post da una volontaria nell’obitorio militare di Shura: “abbiamo visto molti corpi di donne con gli indumenti intimi insanguinati, ossa rotte, fratture alle gambe e al bacino”. La sua paura senza fine è che “questi stessi mostri che si sono macchiati di tali crimini oggi tengono in ostaggio mia figlia”. E più passa il tempo nelle loro mani e più “si aggraveranno le violenze alle quali sarà soggetta, e maggiori sono le probabilità che soffrirà di stress post traumatico per tutta la vita”. Riporta anche le dichiarazioni di Matthew Miller, portavoce del dipartimento di Stato americano, secondo il quale Hamas si rifiuta di liberare queste ragazze“per timore che parlino di quello che hanno dovuto subire durante la loro prigionia”.
“Cosa fareste, se da due mesi vostra figlia fosse ostaggio di stupratori e assassini? Forse la domanda da porre è un’altra: cosa non fareste?”, chiede Ayelet ai suoi lettori, e al mondo. L’eco delle sue parole è più forte di qualsiasi silenzio. Tanto forte che ovunque sia Naama, forse potrebbe sentirlo.