Il Don Carlo è un melodramma cupo e potente, amore e morte, vette sgargianti e neri abissi. Eccetera. Trovate voi gli altri aggettivi che si sciorinano in questi casi sull’eterna tragedia del potere, di chi lo ha e di chi lo subisce. Una vecchia storia che attraversa letteratura e musica, e che in realtà il 7 dicembre a Milano interessa meno dei décolleté delle sciure. Ma chi poteva prevedere che l’opera di Giuseppe Verdi scelta per la Prima della Scala avrebbe fatto da colonna sonora a una barzelletta scalcagnata? Be’, nel mio piccolo, ci ero arrivato da solo, senza minimamente pretendere di competere con il perduto amico Paolo Isotta, che immagino stia tuttora cercando di calmare il povero Verdi rigirantesi nella tomba: l’avevo intuito sin dai primi vagiti antifascisti, preparatori dell’attesa parata contro il governo e il popolo bue colpevole di avergli dato e mantenuto il consenso.
Eccone la cronaca. Tutto comincia quando Beppe Sala apprende che sul palco reale, a differenza del 2022, a raccogliere i dovuti tributi della platea mancherà – accanto al sindaco di Milano, padrone di casa – il presidente Sergio Mattarella. Non ci sarà neppure la premier Giorgia Meloni, che con la sua popolarità respingerebbe nell’ombra dell’anonimato il teorico del cicloturismo metropolitano. Tocca a Ignazio La Russa, presidente del Senato, seconda autorità dello Stato, dare per delega quirinalizia sigillo istituzionale all’evento cultural-mondano. Basta un attimo. L’acuta pera pitagorica di Beppe Sala, dopo (…)
(…) apposita grattatina, si illumina. Davanti agli occhi vede già la scena che oscurerà baritoni, tenori e soprani: protagonista sarà l’Uomo Nero attorno a cui ruoterà la sua regia d’avanguardia partigiana. In mondovisione, Sala, a braccetto dell’Immacolata Icona Antifascista, trafiggerà come un San Giorgio, il Drago fascista.
Il disegno è subito chiaro. Pregusta lo spettacolo che lo proietterà accanto alla Madonnina sulla guglia rossa come Masaniello in smoking. L’idea non gli pare mal combinata. Umilmente disperso tra la folla, dopo essersi collocato – usufruendo dei privilegi del padrone del teatro – accanto al posto in platea riservato alla senatrice a vita Liliana Segre, crede di poter vantare su di lei chissà quale diritto d’autore. Poveretto. Questa splendida 93enne, reduce da Auschwitz è molto più di una reliquia a disposizione della sinistra per il gioco infantile delle sedie. Beppe non lo sa e considera la partita politica e di immagine già vinta, credendo di impugnare delicatamente la Segre come un menu à la carte.
A questo punto deve però mobilitare le comparse per creare il clima sociale che giustifichi quella che cronisti compiacenti chiamano l’astuta mossa del cavallo. Giunge opportuna la Cgil che, in caso di bisogno, passa sempre di lì per caso, nella circostanza accompagnata dalla UIL. Per tradizione, alla ricorrenza di Sant’Ambrogio, le rappresentanze sindacali dei lavoratori scaligeri presentano i loro omaggi ai rappresentanti massimi dello Stato, da cui pure giungono abbondanti sovvenzioni per i loro non precisamente magri guiderdoni. Stavolta si rifiutano. Il comunicato rimprovera a La Russa letteralmente anche le guerre coloniali, di cui si esige l’immediato rinnegamento. Sala a questo punto ha il casus belli per lasciare sul palco lo Stato esposto al dileggio e, in fondo, alla delegittimazione. Nell’immaginario allucinato di Sala e dei suoi numerosi cari, si tratta di contrapporre la vittima di Auschwitz ai boia di Salò. Ovvio: sarà Sala, dopo questa parata, a dirigere non l’orchestra della Scala ma quella del campo largo antifascista. Ma gli va male, malissimo. La Russa dice di volersi sedere anch’egli presso la signora dai candidi capelli. Non può essere lui, infatti, a invitare lei sul palco, ma tocca a Sala, se crede. Liliana Segre tra la proposta di trasformarsi in testa d’ariete antigovernativa e quella di riconoscere le istituzioni e i suoi rappresentanti, non ha dubbi.
Il finale lo ha raccontato benissimo ieri Alessandro Sallusti. Un cretino in frac e cilindro ha ottenuto il suo quarto d’ora di osanna dal Corriere e da Repubblica, sbraitando e facendosi così riconoscere dalla Digos. La sinistra ha il suo eroe da quattro soldi, e Sala, grattandosi la pera, si dispera.