Hollywood nasce così. Falsa. Vive di finzioni: le produce, le alimenta, le esalta, le usa per prosperare e per nascondersi. La luce brilla più intensa per coprire l’oscurità dell’abisso e, dalle parti di Los Angeles, tutto luccica moltissimo. Lì, dagli anni Venti del Novecento, c’è qualcosa che attrae da ogni parte del mondo chi è a caccia di fama e ribalta, di riflettori e pettegolezzi, di maschere e di lusso: ci sono gli studios, la 20th Century Fox, la Warner Brothers, la Columbia, la Paramount, quelle che Oriana Fallaci definisce «fantastiche fabbriche dove tutto è pronto per girare le scene di qualsiasi film», ma si potrebbe anche dire che siano fabbriche pronte a offrire tutto ciò che lo spettatore desidera perché, che sia cinema o sia realtà, in fondo, è lo stesso.
Le fabbriche dei sogni sorgono così: per non farci guardare gli incubi che ne sono la materia prima, la ragion d’essere e la fine, spesso ingloriosa… È sempre Oriana Fallaci, nei suoi articoli apparsi sull’Europeo fra il 1954 e il 1959, ora selezionati nella raccolta Gli adorabili (Rizzoli, pagg. 346, euro 18,50), a mettere il re a nudo: Hollywood «è una comunità che si basa quasi esclusivamente sulla fama, il denaro, la pubblicità e il pettegolezzo… La vanità v’è intesa come regola di vita».
Però, allora come oggi, non lo si può ammettere. Anche se oggi si sciopera, mostrando il lato «normale» di Hollywood (per modo di dire: chi può permettersi di protestare per sei mesi contro l’Intelligenza artificiale, se non un privilegiato per mantenere i propri privilegi?), la verità va nascosta. Bisogna giustificare una vita elitaria sposando cause politicamente corrette, attaccare il sistema in cui si sguazza fingendosene indignati, scandalizzarsi di ciò che da sempre tutti, e tutte, hanno avallato, e magari sfruttato. È l’ipocrisia che regna da un secolo sulle divinità hollywoodiane, «dèi della moderna mitologia» li chiama la Fallaci, e che oggi, nel mondo dei social media, trova la sua apoteosi…
Per esempio, la love story fallimentare fra Anna Maria Pierangeli e James Dean naufraga perché la madre di lei vuole un buon partito, e cattolico. Ma di fuggire insieme senza essere sposati, beh, non se ne parla, perché «Hollywood è, infine, una città puritana. Tutto vi sembra lecito e, invece, tutto è proibito». E siccome «sotto l’aspetto spregiudicato Hollywood è conformista fino all’eccesso», in nome di questo conformismo le perversioni, le delusioni e le esagerazioni più bieche vanno trasformate in innocue paillettes. Prendiamo Ava Gardner. Scrive la Fallaci: «Soprattutto non invidiatela: perché è una donna infelice». Una che ammette: «Ho avuto molti amanti, e nessun amico», e che dice «a Hemingway, che le suggeriva di calmarsi un poco e andarsene a casa: Papa, io non ho una casa. Avevo una villa, a Los Angeles. Ma l’ho venduta». Dietro la più splendente delle divinità c’è un mistero.
Lo scrittore e critico austriaco Alfred Polgar (1837-1955) vide Marlene Dietrich per la prima volta a Vienna, il 20 settembre 1927. Marlene non era ancora L’angelo azzurro: era una ballerina di nome Ruby in un dramma poliziesco intitolato Broadway. Tanto bastò per fare innamorare un gruppetto di ammiratori che diedero vita a «un piccolo circolo dietrichiano», come scrive Polgar in Marlene, il suo breve e perfetto «Ritratto di una dea» che viene ora ripubblicato da Adelphi con un saggio di Ulrich Weinzierl (pagg. 112, euro 12); fu proprio Weinzierl a scoprire il manoscritto di Marlene, trent’anni dopo la morte di Polgar, in una valigia conservata dalla vedova del figliastro e rimasta negli Stati Uniti, dove lo scrittore aveva trovato rifugio scappando dall’Austria nazista e dalla Francia occupata.
Questo libricino era stata la sua ossessione: da quella prima visione della diva, Polgar era entrato in confidenza con lei, che ammirava le sue opere; ne aveva ricevuto sostegno economico durante le peregrinazioni tra la Svizzera e la Francia, in fuga dai nazisti; l’aveva incontrata più volte, proprio per realizzare questo «Ritratto», quando da Hollywood, dove si era trasferita sotto l’ala tirannica e amorosa insieme del regista, mentore e amante Josef von Sternberg, era tornata in Europa con figlia, marito, e amanti (del marito e di lei). «Narcisse Dietrich» era generosa, ma non voleva certo cancellare l’enigma e il fascino di donna pericolosa che aveva costruito: il «Ritratto» non vedrà mai la luce, con Polgar vivo…
Di Marlene nel pieno di Capriccio spagnolo fantasticava, già da ragazzino, il futuro regista Kenneth Anger mentre, al cimitero, omaggiava la tomba di Rodolfo Valentino. Capriccio spagnolo, ovvero «il più delizioso dramma sado-maso mai prodotto nelle fabbriche della Città dei Sogni», come scrive in Hollywood Babilonia II (appena riedito da Adelphi, pagg. 490, euro 18): tra foto di scena, celebrità paparazzate, visi deturpati dall’alcol, i resti di Elizabeth Short («la storia di Hollywood è stata un malaugurato susseguirsi di perversioni sessuali e di omicidi, ma… il caso della Dalia Nera rimane il più agghiacciante di tutti»), le mani del banchiere Joseph Kennedy sul mondo delle sale e delle produzioni («quando il suo piano satanico andò all’aria, Kennedy finì per abbandonare il cinema.
L’ultimo rifugio dei mascalzoni è la politica»), Anger ci offre «il braccio per un’altra passeggiata lungo il Viale del Trapasso, la Strada della Fama di Hollywood, o la Strada dell’Infamia», accompagnati da una buona dose di «Umor Nero». Ci vuole, per esempio per sfogliare la carrellata di suicidi famosi, con in testa Marilyn Monroe, che sei anni prima Oriana Fallaci aveva tentato vanamente di intervistare: «Pensavo che dopotutto Marilyn era soltanto una diva». E invece no, era qualcosa di più, tanto che perfino il suo inseguimento diventò qualcosa di romanzesco; e, incredibilmente, la mancò anche una seconda volta, quando intervistò Arthur Miller. Ma nella Hollywood Babilonia di Anger c’è anche James Dean con la sua passione per il sadomaso e l’omosessualità sbandierata («smaniava per gli scudisci, gli stivaletti, le scene di schiavitù e le cinghie di cuoio») e le piattole nelle parti intime, per cui si grattava a telecamere spente; uno che «con il suo comportamento infantile ed esibizionista era la favola di Hollywood».
Per Oriana Fallaci, invece, quel ragazzo che piaceva perché era «inquieto e soprattutto infelice» (non fa menzione della sua omosessualità) era semplicemente troppo ribelle per quella città fintamente puritana. Eppure, James Dean è uno dei pochi ai quali Hollywood abbia perdonato il peggiore dei peccati: la morte, che di solito fa pochissimo pubblico e invece, nel suo caso, è stato un detonatore di successo. Anger ci svela i retroscena del triangolo Dorothy Mackaye/Ray Raymond/Paul Kelly, con relativo omicidio del marito di lei, Raymond, e carcere per i due amanti.
Ci racconta come Quarto potere sia «il più straordinario colpo basso della storia del cinema», sferrato da Herman Mankiewicz e Orson Welles ai danni di William Randolph Hearst: il miliardario aveva infatti soprannominato la parte più intima dell’amante Marion Davies Rosebud, che è l’ultima parola pronunciata da Charles Foster Kane nel film, insomma, un «cunnilingus cinematografico»… E ancora, perché Clark Gable non volle George Cukor come regista di Via col vento, e lo fece sostituire da Victor Fleming (anche qui ritorna l’omosessualità nascosta); la pedofilia del tennista e attore William Tilden; la mafia imperante fra le «associazioni a delinquere» degli studios; le orge di Lionel Atwill, che portano Mister Lucifer/Dottor Pazzo in tribunale. Lui stesso si descrisse così: «Vedete? da questa parte il mio volto è mite, gentile, capace soltanto di amore per il prossimo; l’altra parte, l’altro profilo, è crudele e rapace e malvagio, e può concepire soltanto lussuria e fosche passioni. Dipende da quella che è girata verso di voi – o verso l’obiettivo. Dipende dalla faccia della luna al rifluire della marea». C’è il volto, e c’è la maschera. Da sempre, Hollywood è entrambe. È le due facce della luna: i sogni, come le luci, non si spengono mai, e gli incubi non vanno mai a dormire.