Una cosa è certa: la principale incognita delle elezioni presidenziali egiziane, in programma da oggi a martedì 12 dicembre, non riguarda il possibile vincitore. La riconferma del 69enne presidente uscente Abdel Fattah Al Sisi non è soltanto scontata, ma praticamente obbligata. E non solo per il ferreo controllo imposto sul voto, come su ogni altro aspetto della vita pubblica, ma anche per la sostanziale irrilevanza dei tre teorici avversari. Abdel Sanad Yamama, leader di Al Wafd, la formazione politica più antica del Paese, Farid Zahran, presidente del partito socialdemocratico, e Hazem Omar, capo del partito popolare repubblicano, sono di fatto dei carneadi, sconosciuti a gran parte dei 65 milioni di elettori egiziani. E quei pochi che li conoscono difficilmente scommetterebbero sulla loro vittoria.
Anche perché, a differenza dell’ex-generale Al Sisi, nessuno dei tre suoi presunti rivali ha mai vestito una divisa. E questo rappresenta un «vulnus» irrimediabile. Soprattutto in un Paese in cui l’esercito è il decisore occulto di ogni mossa politica ed economica e dove tutti i precedenti presidenti (tranne Mohammed Morsi, l’esponente della fratellanza Musulmana deposto con un golpe dallo stesso Al Sisi) sono stati espressione dell’apparato militare.
In questo scenario l’unico interrogativo riguarda la capacità di Al Sisi di trasformare il voto in un autentico plebiscito. I precedenti non sono con lui. Nel 2014 e nel 2018 l’affluenza si è fermata al 40 per cento e al 47,5 per cento, facendo capire come per molti elettori il risultato fin troppo scontato non fosse un incentivo per recarsi alle urne. Del resto difficile immaginare il contrario in un Paese dove l’apparente democrazia viene gestita con il pugno di ferro e dove il dissenso è punito con la galera.
Un’ulteriore e manifesta apatia elettorale rischierebbe però di minare la credibilità del presidente uscente, confermando le tesi di chi gli rimprovera di aver ridotto il voto a una farsa. E questo non sarebbe certo un bel segnale per un Al Sisi chiamato a fronteggiare una difficilissima congiuntura politico-economica. L’Egitto già piegato da un pesante debito e da una pesantissima crisi economica si dibatte tra le spire di una super-inflazione che s’aggira intorno al 40 per cento di media, ma tocca punte del 70 per cento in campo alimentare.
Come se non bastasse, il regime di Al Sisi deve fare anche i conti con le ambiguità assai conflittuali del conflitto nella Striscia di Gaza. Un conflitto in cui il presidente gioca la parte del mediatore neutrale, ma deve destreggiarsi con gli umori di un’opinione pubblica musulmana che stenta sia ad accettare la collaborazione con Israele sia a negare la solidarietà ai palestinesi di Gaza. Un ruolo reso ancor più complesso dal passato recente di Al Sisi che dopo aver deposto il predecessore Morsi ha smantellato a colpi di arresti e processi per terrorismo quella Fratellanza Musulmana che a Gaza è considerata la madrina ideologica di Hamas.
Insomma un’elezione ginepraio a cui guarda con molta attenzione, tra gli altri Paesi, un’Italia chiamata a difendere il ruolo di secondo paese esportatore in Egitto dopo la Germania, con quote di fatturato che, ad agosto di quest’anno, superavano i due miliardi e cento milioni di euro. Insomma, la partita ci riguarda da vicino. Ed è una partita forse non decisiva ma certamente molto importante.