Allarme Cina, ripresa in fase critica

In Ucraina la Cina non deve fare affari

Sosteneva Confucio che la gloria più grande non sta nel non cadere mai, ma nel risollevarsi sempre dopo una caduta. È una gloria che la Cina fatica a conquistare. Dopo il ruzzolone a causa del Covid, l’ex Impero Celeste stenta a rimettersi in piedi, invischiato com’è in una terra di mezzo dove le vecchie certezze, poggiate su un capitalismo autoritario, non hanno ripreso forza. Il momento è delicato, e il primo ad ammetterlo pubblicamente ieri, in una riunione del Politburo del Partito comunista, è stato il presidente Xi Jinping: la ripresa economica, ha ammesso il leader, è «al momento, ancora in una fase critica».

La crescita nel terzo trimestre al di sotto del già modesto obiettivo del 5% è stata più di un campanello d’allarme per Pechino. Consapevole di essere esposta a venti contrari che soffiano da due diverse direzioni. Alla stagnazione interna e ai problemi collegati alla crisi immobiliare di cui Evergrande è stata solo la punta dell’iceberg, si sommano infatti i «crescenti fattori avversi nell’ambiente politico ed economico internazionale». Una situazione geo-politica instabile è sabbia negli ingranaggi per un Paese così dipendente dalle esportazioni (appena un +0,5% in novembre), e un freno al reperimento delle risorse necessarie per sostenere i consumi privati.

Fattori di debolezza colti con precisione martedì scorso da Moody’s, che ha motivato il declassamento dell’outlook cinese da stabile a negativo non solo con le preoccupazioni legate al debito delle amministrazioni locali e delle aziende statali, ma anche con gli «ampi rischi al ribasso sulla forza fiscale, economica e istituzionale della Cina». Pechino incassa il colpo e si prepara a varare quelle misure radicali che avrebbe forse già dovuto implementare allo scoppio della bolla immobiliare, quando era divenuto ben chiaro che si trattava di una crisi sistemica che dal mattone era tracimata fino al settore bancario e alle famiglie. Xi Jinping chiama in causa anche la People’s Bank of China, invitata ad abbandonare la politica monetaria «forte» a favore di un agire «flessibile, adeguato, mirato ed efficace»; ha spronato i membri del partito a «concentrarsi sull’accelerazione della costruzione di un sistema industriale moderno», sull’espansione della domanda interna e sulla prevenzione e il disinnesco dei rischi; ha chiesto infine di rafforzare «l’autosufficienza» nei settori chiave della scienza e della tecnologia. Un piano articolato che dovrà trovare sviluppi concreti nella Conferenza annuale sul lavoro economico centrale, in calendario la prossima settimana. Quando una parte delle discussioni potrebbe essere riservata ai rapporti con gli Stati Uniti alla luce del recente faccia a faccia fra il dittatore Xi Jinping e Joe Biden.

L’America sembra peraltro attraversare una congiuntura più favorevole, visto che in novembre sono stati creati 199mila posti di lavoro (le attese erano per 190mila) e la disoccupazione è scesa dal 3,9 al 3,7 percento. Cifre che riducono le chance di un taglio dei tassi nel marzo del 2024, ma usate da Biden per ricordare che «sotto il mio controllo abbiamo ottenuto una crescita migliore e un’inflazione più bassa rispetto a qualsiasi altro Paese avanzato».

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