Denudati, in qualche caso bendati, la testa bassa, le mani dietro la schiena, allineati come prigionieri di guerra, caricati sulle camionette dell’esercito israeliano. Centinaia di «sospetti terroristi» di Hamas sono stati arrestati e interrogati dall’esercito e dall’intelligence israeliana e «molti di loro si sono arresi e consegnati» nelle ultime ore nella Striscia di Gaza, in una data simbolica, il 7 dicembre che segna due mesi dal feroce attacco contro Israele, 1200 morti il 7 ottobre. «Controlliamo chi è connesso ad Hamas e chi no, teniamo detenuti tutti e li interroghiamo», ha spiegato il portavoce dell’Idf, Daniel Hagari, dopo che le foto e i video circolati in Rete sono diventati virali. Se la loro affiliazione a Hamas fosse confermata, sarebbe un segnale che i terroristi stanno perdendo non solo sul campo, ma anche nel cuore e nelle menti degli affiliati.
Divisi in file da quattro, almeno cento uomini si contano in uno dei filmati apparentemente girato a Jabalia, nel nord di Gaza. Un altro centinaio, con gli occhi coperti da una fascia rossa, si vedono in altre immagini, pare immortalate a Khan Yunis, nel sud. Altre decine sono sul retro di un veicolo militare. Fonti palestinesi sostengono si tratti semplicemente di civili, tra loro anche il giornalista Diaa Al-Kahlout, del New Arab. Ma la resa di molti, confermata da Israele, sarebbe l’indizio di una possibile svolta, un segnale che si somma alle denunce di alcuni civili a Gaza, che rompono l’omertà e raccontano di come i terroristi sottraggano gli aiuti umanitari alla popolazione. «Vanno tutti a loro, nelle loro case», spiega arrabbiata una gazawi in un video, confermando ciò che da tempo sostengono le autorità israeliane: «Sono molti gli aiuti che entrano, ma non arrivano ai civili».
La guerra sta esasperando i palestinesi di Gaza, ai quali proprio ieri Israele ha concesso un aumento «minimo» delle consegne di carburante dopo le pressioni degli Stati Uniti, «per evitare il collasso umanitario». Per la prima volta dall’inizio del conflitto, per diminuire il rischio che sui camion viaggino anche armi e aiuti militari per Hamas, Israele ha anche annunciato l’apertura del valico di Kerem Shalom, nel sud est della Striscia.
La guerra continua spietata, tra le sofferenze dei civili e le vittime su entrambi i fronti, oltre 17mila quelle palestinesi. Almeno 7 soldati israeliani sono rimasti uccisi ieri e fra questi, a Jabalia, c’è Gal Meir Eizenkot, 25 anni, figlio dell’ex capo di stato maggiore dell’esercito e ministro Gadi Eisenkot. Colpito da un ordigno durante un rastrellamento. Sono 89 i militari morti, a cui ieri si è aggiunto un civile per un razzo dal Libano di Hezbollah, che Netanyahu avverte: «Se inizia una guerra contro Israele, trasformerebbe Beirut e il Libano in Gaza City e Khan Yunis».
Sul piano diplomatico, la battaglia si sposta al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Mentre Vladimir Putin stringe l’asse con l’Iran, annunciando di aver accettato l’invito del presidente Raisi a Teheran, dopo la visita del leader iraniano ieri a Mosca e la minaccia che «i prossimi giorni saranno terribili per Israele», colpevole di «genocidio», nelle prossime ore gli Emirati arabi uniti, unico Paese arabo fra i 15 del Cds, dove Putin si è appena recato in visita, depositeranno una risoluzione che potrebbe essere dibattuta oggi, per un immediato stop umanitario alle ostilità. Gli Stati Uniti hanno già fatto sapere di non essere favorevoli a un cessate il fuoco, convinti che favorirebbe Hamas, spiegano che nemmeno una pausa è in vista, ma il loro veto su una tregua potrebbe mettere in imbarazzo Joe Biden, che nel frattempo chiede a Israele di limitare gli attacchi al sud, rifugio degli sfollati. Il leader americano ieri ha sentito Netanyahu e il re Abdullah di Giordania. Il segretario generale dell’Onu Antonio Guterres, intanto, ha fatto di nuovo infuriare Israele invocando, per la prima volta nel suo mandato, l’art. 99 della Carta Onu, per notificare che la crisi a Gaza è «una minaccia alla pace mondiale». Lapidaria la replica israeliana: «È il mandato di Guteress che mette a rischio la pace nel mondo».