Un’operazione complessiva di quasi 1,8 miliardi allo studio del governo è l’ultima possibilità per l’ex Ilva di sopravvivere al suo graduale e prossimo spegnimento per “consunzione”, temine molto efficace evocato mesi fa da Franco Bernabè, presidente di Acciaierie d’Italia (la società pubblico-privata che gestisce l’ex lIva). Quanto tempo faranno guadagnare queste risorse e quale futuro spetta al polo siderurgico saranno diversi step successivi a chiarirlo. Ora, il primo traguardo è quello del 22 dicembre quando, secondo fonti solitamente bene informate, il governo dovrà arrendersi all’inevitabile: salire in maggioranza nel capitale di Acciaierie e poi decidere per un aumento di capitale che avverrà, probabilmente, in due tempi.
Solo così si potrà salvare quel poco che resta della produzione senza che gli impianti si spengano definitivamente; solo così si potrà salvaguardare l’indotto e le sue imprese che allo stremo impugnano l’ultima arma che gli è rimasta “minacciando” una disperata istanza di fallimento per una piccola parte dei crediti che vantano e sono esigibili, circa 70 milioni di euro; solo così, per il momento, e con probabili ammortizzatori sociali, si potranno garantire gli stipendi degli oltre 10mila lavoratori coinvolti direttamente.
Una road map ancora allo studio del governo, che negli ultimi mesi ha più volte cambiato strada sul dossier, complice anche il rimpallo da un ministro all’altro del dossier. La prima mossa dovrebbe passare in primis dalla conversione del prestito obbligazionario da 680 milioni: azione che ribaltando la governance porterà Invitalia dal 38% attuale al 62% (con ArcelorMittal in discesa al 38%). Uno step che, da contratto, era previsto a maggio 2024, ma che dovrà essere per forza anticipato.
Una volta salito in maggioranza lo Stato tramite Invitalia, dovrebbe andare poi in scena l’aumento di capitale, un primo da 320 milioni per le esigenze di cassa urgenti e un secondo, più sostanzioso, di 750 milioni già previsto. D’altra parte, il dl Aiuti Bis autorizza Invitalia a «sottoscrivere aumenti di capitale o diversi strumenti, comunque idonei al rafforzamento patrimoniale, anche nella forma di finanziamento soci in conto aumento di capitale, ulteriori rispetto a quelli previsti ai precedenti periodi e fino ad un importo non superiore a 1 miliardo di euro». Una corsa contro il tempo in cui il governo non può più permettersi di sbagliare un colpo, ma nel frattempo il polo di Taranto dovrà tenere duro evitando di spegnersi. Al momento pare che Afo2 (l’altoforno 2) non chiuderà, ma si alternerà con il Afo4 pur viaggiando sui minimi produttivi. I parchi minerari sono però ormai pressochè vuoti e resta poca materia prima per alimentarli.
L’iniezione di soldi pubblici, in ogni caso, non risolverà tutti i problemi e si rischia solo di tamponare l’emorragia. Sicchè, una volta stabilizzata, l’ex Ilva dovrà varare un piano industriale adeguato e realistico (e presumibilmente senza Arcelor) con l’appoggio del mondo industriale. Di fatto, un ritorno al 2018 con un’azienda e un mercato tuttavia molto meno appetibili. D’altro canto, l’Italia ha bisogno di acciaio. «Riteniamo che sia giunto il tempo di cambiare la gestione di Acciaierie e che il governo, con un provvedimento d’urgenza, debba acquisire il controllo dell’azienda» hanno nuovamente sollecitato i sindacati metalmeccanici annunciando una conferenza stampa per lunedì 11 dicembre nel piazzale dinanzi a Palazzo Chigi.