La tregua infranta di cui si discute nel tragico mondo in cui viviamo sembra aleggiare sul mondo autoriferito del melodramma, massimamente alla prima della Scala, che di quest’universo circolare è la cassa di maggior risonanza, a prescindere dai contenuti. Da molti anni si assiste ad una crescente crisi della regia operistica, spettacoli annunciati dalla pompa della réclame come innovativi o rivoluzionari, rivelatisi alla prova della scena mammut senza emozioni, o peggio, elucubrazioni arrampicate sui vetri. Cercheremo di capire perché questa prima si presenta diversa dalle altre, proprio per la sua veste in linea con la migliore tradizione registica.
È indubbio che la parte visiva dello spettacolo abbia assunto nel corso degli ultimi decenni un rilievo preponderante rispetto al primato delle esigenze della musica e alla scelta delle voci. Un fatto non positivo, perché la forza di un spettacolo si misura dall’omogeneità di tutti gli elementi che concorrono alla sua riuscita: regia, scene e costumi, concertazione e direzione d’orchestra, orchestra e coro, solisti, e, quando chiamati in causa, coreografia e corpo di ballo.
Nel caso specifico del Sant’Ambrogio 2023, cioè per il ritorno come opera inaugurale del Don Carlo di Verdi, non mancano già immagini e commenti dopo la prova generale riservata agli under 30 e quella precedente aperta a discrezione al pubblico. Lo spettacolo diretto da Riccardo Chailly, regista Lluís Pasqual, non rinuncia, da quanto anticipato, a scene, costruite da Daniel Blanco, in cui lo spettatore può riconoscere i luoghi storici dell’azione, in un trionfo di oro e nero, come si confà alla lugubre corte di Filippo II di Spagna.
La presenza di una veterana del costume come Franca Squarciapino, storica consorte dello scenografo Ezio Frigerio, ci ricorda come la scuola italiana del costume ha potuto allineare per la prima della Scala costumiste regali come Gabriella Pescucci, Luisa Spinatelli, Anna Anni (festeggiate in questi giorni dall’uscita di alcuni volumetti preziosi degli Amici della Scala, a cura di Vittoria Crespi Morbio). Professioniste che il dilagare di un gusto degenerato per costumi arlecchino senza sostrato storico aveva condannato all’inattività, o al massimo a qualche raro film in costume.
D’altronde quest’opera richiede un lusso di mezzi scenici e musicali che mal si coniuga con i fichi secchi, cioè con regie minimaliste. L’originalità di quest’opera risiede proprio nella stravaganza eletta a principio, quella che rende le tante inesattezze storiche, come diceva Verdi, «più belle del vero», quella che ingrandisce i personaggi a dimensioni shakespeariane. Un’osservazione che si applica prima di tutti al personaggio del Grande Inquisitore, vegliardo nonagenario, il cui ruolo è capitale – nonostante abbia solo tre apparizioni sempre più brevi – simbolo stesso di un dramma smisurato, fatto di opposizioni costanti: «amore, amicizia, fedeltà, compassione, ideali libertari da una parte; odio, gelosia, tradimento, sete di potere, tirannia reale ed ecclesiastica, dalla altra. Scontri da cui nascono conflitti che si manifestano apertamente, alla luce del sole, o in maniera subliminale, in ombra», come ha spiegato in un saggio decisivo il musicologo francese René Leibowitz (Don Carlo ou les fantômes du clair-obscur, 1972).
Sappiamo che Verdi ha scelto un soggetto storico dalle risonanze politiche, un dramma d’amore, di sospetti e gelosie, farcito con ogni sorta di drammi e ambizioni familiari. «Tutto questo potrebbe passare per realismo, se non fosse stregato dai fantasmi: fantasmi del chiaro-scuro, che creano un mondo soggiacente, trama sotto cutanea di uno spettacolo totalmente irreale. In quest’ottica lo spettro di Carlo V prende il suo rilievo, perseguitando le coscienze dei personaggi (Filippo, Carlo, Rodrigo e Elisabetta) e mettendo sotto scacco il Grande inquisitore», quando sottrae il nipote Carlo dalle mani dell’Inquisizione.
«È lui il fantasma principale dell’opera, appena intravisto nel corso di due brevi apparizioni – all’inizio e alla fine – ma onnipresente, come una cattiva coscienza, come un incubo che si ha paura d’aver sognato. È lui che proietta quella luce incerta e quasi indefinibile su ogni quadro dell’opera, e l’ombra profonda che lo circonda rende ancor più brillante la sua presenza. Fare prendere coscienza all’ascoltatore-spettatore di questa realtà fantomatica che è, allo stesso tempo, uno dei fondamenti del chiaroscuro, è forse il compito più importante e più difficile che attende la realizzazione scenica e musicale di Don Carlo».