Difficile capire cosa pensare di Squid Game: The Challenge, la serie reality germinata dalla famosa e crudelissima serie coreana. La Squid Game originale si portava dietro oltre alla violenza una fortissima carica di critica sociale, che non sfociava mai nel buonismo, anzi.
La versione giocata davvero, ora disponibile su Sky, è ovviamente molto meno violenta, non muore nessuno, ma dell’intelligenza della serie inventata dal visionario regista e sceneggiatore sud coreano Hwang Dong-hyuk si porta dietro davvero ben poco. La serie/reality replica scrupolosamente l’iconografia di Squid Game per ricrearne i surreali labirinti kafkiani. Al loro interno vengono buttati quelli che vengono definiti «concorrenti da tutto il mondo» (ma i più arrivano dagli Usa o sono anglofoni). Molti dei giochi sono la ricostruzione pedissequa degli originali, altri sono delle novità, anche perché non ci si poteva far scappare il morto o il ferito, ma sempre ispirati dai giochi infantili riproposti in chiave sadica. In aggiunta c’è una certa dose di possibilità di eliminarsi a vicenda, sulla base di calcoli di gioco o di pura antipatia. Che dire, oltre ad una certa e comprensibile propensione della produzione a creare il personaggio da far seguire al pubblico, il resto prende le forme di un esperimento sociale. Non sarà il famoso «effetto Lucifero» dell’Università di Stanford… Ma comunque ne esce un’umanità decisamente abbietta. Usciva così anche dalla serie? Non del tutto, e c’era un messaggio di fondo che è quello che fa la differenza tra l’arte e il voyeurismo. E purtroppo il voyeurismo funziona sempre.