Lo Stato imprenditore? Non c’è

Lo Stato imprenditore? Non c'è

Va preso atto, una volta per tutte, che tra Stato imprenditore ed economia di mercato c’è solo incomunicabilità. Insomma, non vi sono alla radice le condizioni perché vadano d’accordo fra di essi. Ed è cosa buona e giusta, anche se non tutti la pensano così. Se si escludono le partecipazioni strategiche, la storia del nostro Paese è lì a dimostrare l’irrazionalità improduttiva di quel tentativo. Perché lo Stato imprenditore è un soggetto spendaccione, non ha visione. E il cittadino/contribuente ne paga quotidianamente e a caro prezzo le conseguenze. Lo Stato, se seguisse una vocazione non invasiva e pervasiva su tutto e tutti, non si impegnerebbe in qualcosa che non gli appartiene. Che, pericolosamente, lo distrae dalle sue mansioni fondamentali. Dunque: lo Stato faccia lo Stato. Riconosca che l’attività di imprenditore non fa al caso suo. Ma perché ciò accada, è necessario un cambio di indirizzo culturale nel decisore pubblico. A Roma come nei territori. Pensiamo al tallone d’Achille delle partecipate. Nella gran parte si tratta di pozzi senza fondo. Realtà, per lo più, con i conti in grave disordine. Che succhiano e restituiscono solo problemi alla collettività. Realtà utili solo come aree di parcheggio della mala politica. Opache e chiacchierate. Andrebbero vendute di corsa o chiuse e invece non accade.

D’altronde, qui si privatizza poco, male o nulla. Proprio perché lo Stato ritiene conveniente darsi il tono dell’imprenditore che gestisce e «impera». Ma è un imprenditore che dell’imprenditore non ha nulla. Ancora peggio è il sistema misto pubblicoprivato. Lo dico per esperienza: è un modello lacunoso. È un miscuglio dove entrambi vengono meno a quella che dovrebbe essere la propria vocazione. Lo Stato deve svolgere, con rigore, il compito di controllore.

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