Il pressing disperato per gli ostaggi: “Ogni giorno può essere l’ultimo”

Il pressing disperato per gli ostaggi: "Ogni giorno può essere l'ultimo"

Da quando la guerra è ripresa dopo che Hamas ha fatto saltare la tregua legata alla restituzione di donne e bambini, la leadership del gruppo terroristico sembra assediata. Ma in parallelo risuona la richiesta disperata delle famiglie dei rapiti: «Portateli a casa, adesso». Sul palcoscenico mondiale di Israele la pietà postmoderna e democratica si incontra con una guerra di sopravvivenza contro un primitivo mostro terrorista peggiore dell’Isis. L’arma più pregiata di Israele contro la depressione e l’antisemitismo internazionale è il volto unito e entusiasta di combattere una guerra giusta, nonostante la richiesta di frenare.

Ma due giorni fa si è svolto a Tel Aviv un incontro drammatico fra le famiglie dei rapiti e il gabinetto di sicurezza. La paura che ogni giorno può essere fatale per gli ostaggi è diventata frenetica da quando le testimonianze di chi è tornato a casa hanno raccontato che cosa significa stare per settimane nelle mani di Hamas: fame, sete, solitudine, maltrattamenti, le pillole di calmanti forzate prima che le tv filmino i rapiti tranquilli al ritorno. Poi, la sofferenza è sgorgata inarrestabile, molti ostaggi sono crollati, alcuni sono ricoverati, nuove malattie si sono sviluppate, quelle vecchie sono peggiorate o inguaribili ormai; e martedì sono state gettate sul viso di Netanyahu e del ministro della difesa Gallant anche le violenze sessuali, e la terribile paura degli ostaggi quando l’aviazione israeliana bombardava nelle vicinanze. Danielle, tornata con la sua piccola, ha detto che tutto tremava, che la piccola era disperata, che si chiedeva se ne sarebbero uscite vive. La questione degli stupri inoltre, è diventata sempre più importante via via che all’Onu si cominciava ad ammettere lo stupro di massa delle donne israeliane come arma di guerra di Hamas, cosa vergognosamente ignorata per settimane. Si è anche detto che proprio a causa della violenza subita dalle ragazze prigioniere, Hamas ha rifiutato di consegnare donne e bambini secondo i patti, temendo che portassero testimonianza. La richiesta logica e comprensibile delle famiglie è di fare qualsiasi cosa per liberare i loro cari: per esempio, accettare la tregua e la restituzione dei detenuti terroristi importanti in cambio del ritorno di tutti, consentendo la partenza di Sinwar come nell’82 per Arafat, quando lo si lasciò partire dal Libano dopo che era stato sconfitto. Questa scelta comporterebbe il disastro strategico della sopravvivenza del terrorismo di Hamas, bloccherebbe l’esercito, salverebbe parte delle armi, dei missili, degli uomini di Hamas, vanificherebbe il grande sacrificio di vite umane che i soldati pagano combattendo. Sembra di capire soprattutto che il Gabinetto abbia ancora molta fiducia se non in un’operazione di salvataggio di tipo Entebbe, impossibile dato che gli ostaggi sono sparsi, in un combattimento molto diretto al fine di ritrovarli. Gallant l’ha detto quasi chiaramente alle famiglie: noi combattiamo con unità molto specializzate, che sanno cosa fanno, dove arrivano, cosa trovano. E al primo posto c’è sempre la salvezza dei rapiti. Ma naturalmente questo non basta alle madri e ai figli: lo gridano forte, e anche se la guerra fa molto rumore, in un paese come Israele che dette nel 2011 la bellezza di 1027 detenuti terroristi di prima linea fra cui Sinwar, le loro voci risuonano nella mente e nel cuore.

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