Sono i bassi e le due donne le chiavi del “Don Carlo”

Sono i bassi e le due donne le chiavi del "Don Carlo"

Quando si decide di allestire un’opera grande come il Don Carlo di Giuseppe Verdi, e a maggior ragione per la serata inaugurale della stagione del Teatro alla Scala, ragioni pragmatiche prendono il sopravvento su ogni altra considerazione. Riccardo Chailly, direttore di questa prima, di solito avido nel ricercare versioni originali o trovate inedite d’ogni specie, ha optato per la consueta versione abbreviata in quattro atti.

Versione che Verdi realizzò per una ripresa dell’opera alla Scala nel 1884, vale a dire diciassette anni dopo la prima all’Opéra di Parigi. Decisione inevitabile e saggia, perché troppe sono le parti migliorate da Verdi nella revisione, per optare per l’originale, mentre i tagli più consistenti (il primo atto e il balletto) non solo alleviano l’ascolto di un’opera molto lunga (e si sa che il pubblico della prima è venuto soprattutto per motivi extra-musicali e infliggergli sei ore di spettacolo sarebbe crudeltà), ma rafforzano la coesione di una struttura ad arco. L’opera in quattro atti si apre e si chiude nel medesimo luogo, il convento di San Giusto dove si era ritirato l’imperatore Carlo V abdicando, e dove si vocifera si aggiri ancora nelle vesti di un monaco. Qui, davanti alla tomba dell’imperatore, il figlio Filippo II e la sua terza moglie Elisabetta di Valois vengono a pregare nel primo atto; qui nell’ultimo atto l’infelice Infante di Spagna, Don Carlo, ha dato appuntamento alla regina che ama da quando gli fu promessa prima di destinarla al padre. La comparsa finale dell’Imperatore che esce dalla tomba e prende sotto la sua ala protettrice Carlo, sottraendolo alla vendetta del Grande Inquisitore e del Re che lo maledicano come ribelle, eretico e traditore potrebbe essere scambiato per un lieto fine. Forse solo un finale inverosimile era l’unico possibile per una vicenda dove il vero storico è sacrificato al verosimile. L’anticlericale Verdi assestava così, con una soluzione ambigua, l’ultima stoccata contro il potere oscurantista della Chiesa.

I grattacapi per allestire quest’opera partono proprio dal basso. Le figure di Filippo, del Grande Inquisitore e del misterioso Frate che si rivela nel finale come Carlo V sono tutte voci di basso che richiedono tre interpreti adeguati. Per solito il nonagenario cardinale inquisitore ha un colore di voce più scuro, da basso nero, profondo, non solo perché deve arrivare al sepolcro del mi basso, ma anche il Frate misterioso non scherza per potenza e autorità quando intona all’inizio dell’opera il formidabile memento («Ei voleva regnare sul mondo, obliando colui che nel ciel segna agli astri il cammin. L’orgoglio immenso fu, l’errore suo profondo»). Dunque c’è grande attesa e agitazione nel reparto dei bassi, formato dallo sperimentato Michele Pertusi che ha rilevato l’eliminato René Pape come Filippo II, da Jongmin Park, che sosterrà all’ultimo momento, oltre al previsto ruolo del Frate, quello dell’Inquisitore in vece dell’indisposto Ain Anger, lasciando le battute finali del porporato a Huanhong Li, causa impossibilità di sostenere due ruoli che nel finale cantano assieme. A questi bassi il duro compito di seguire orme colossali che sul palcoscenico scaligero hanno lasciato leggendari duellanti in chiave di basso, come quello sostenuto dagli indimenticati bulgari Boris Christoff e Nicolai Ghiaurov.

Voci italiane in rilievo sia per la parte forse più nobile fra i baritoni verdiani, quella del marchese di Posa, interpretato da Luca Salsi, che per quella tutta a sé stante del ruolo del titolo affidata a Francesco Meli. Verdi sulla scorta della fonte principale del libretto, il dramma di Schiller, accentua in Don Carlo il carattere idealista, romantico, sognatore, al contrario delle fonti storiche che descrivono l’Infante di Spagna come vizioso, tarchiato, instabile, epilettico. La sua frustrazione come amante negato di Elisabetta e come figlio ribelle all’autorità paterna, il suo sodalizio quasi morboso con Posa, richiedono un attore consumato più che una voce robusta e basta – grandi interpreti sono stati tenori dalla spiccata personalità vocale e attoriale: Franco Corelli, Flaviano Labò, Bruno Prevedi, Roberto Alagna, Jonas Kaufmann. Il reparto femminile è diviso fra la vittima sacrificale, Elisabetta, affidata alla sontuosa voce di Anna Netrebko, talismano per il successo delle recenti prime scaligere, e la vendicativa, poi pentita amante respinta, Anna Mendoza de la Cerda principessa di Eboli, nobildonna felina che porta una benda sull’occhio destro, innamorata respinta di Don Carlo e amante del padre, affidata alla statuaria voce del mezzosoprano Elina Garança. Il grado di regalità per la prima e la grinta appassionata per la seconda sono le due caratteristiche principali con cui giudicare la prova delle due voci femminili principali.

Come ripetuto a iosa, la compagnia di canto presentata alla Scala che prevede undici ruoli, senza contare i deputati fiamminghi scelti fra i coristi e gli allievi dell’Accademia scaligera, è ricolma di stelle. Visti i precedenti turbolenti di altri Don Carlo inaugurali alla Scala, dove non sono mancati incidenti scatenanti più o meno legittime contestazioni, gli squilli di tromba dovrebbero essere misurati. Il rispetto per il lavoro degli artisti chiede prudenza e riserbo.

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