Un’overdose di letteratura “narcos”

Un'overdose di letteratura "narcos"

Con un’area metropolitana di quasi cinque milioni di abitanti, Guadalajara è la seconda città del Messico e da oltre trentacinque anni ospita la Feria Internacional del Libro, evento editoriale e letterario secondo al mondo dopo la fiera di Francoforte. Purtroppo, però, da qualche tempo Guadalajara e lo Stato di Jalisco primeggiano anche per record meno positivi, ad esempio per la circostanza di essere diventata l’area più infestata dai nuovi cartelli della droga. I Narcos della zona stanno soppiantando le gang rivali e al tempo stesso provano a modernizzare il mercato degli stupefacenti: il Jalisco si sta infatti specializzando nella produzione e nello smercio del terribile fentanyl, un analgesico oppioide sintetico molto potente e dagli effetti letali.

I componenti chimici arrivano via mare dalla Cina e il cartello di Guadalajara gestisce i laboratori dove lo stupefacente viene assemblato, prima di imboccare la strada per gli Stati Uniti. Non è un caso, quindi, che proprio alla FIL di Guadalajara in questi giorni si siano incontrati alcuni tra i più noti scrittori messicani di narcoliteratura, cioè di quel filone narrativo, di solito giallo e poliziesco, che mette al centro dei propri racconti lo strapotere e la violenza dei signori della droga. Gente che ogni giorno vive sulla propria pelle la sciagura dei Narcos e ha quindi un punto di vista differente dagli autori gringos – si pensi al più noto, Don Winslow – che osservano il fenomeno dall’altra parte della frontiera.

Il fondatore, nonché nome più importante di questo genere narrativo, è senza dubbio Élmer Mendoza, 73 anni, scrittore di noir, docente universitario e drammaturgo, nato e tuttora residente nello stato norteño di Sinaloa, uno di quelli più afflitti dalla piaga dei trafficanti. Personaggi che lui descrive in modo assai meno glamour di quanto non facciano cinema e tivù: «Hanno trasformato i Narcos in icone, ma in realtà non vivono come sullo schermo, non sono belli né affascinanti e non portano barbe curate alla moda. Sono uomini normali, la cui durezza risiede nello sguardo dell’assassino». Mendoza, che in Italia è pubblicato da La Nuova Frontiera, è considerato il pioniere della narrativa di fiction che prende spunto dalla cronaca nera per denunciare la realtà sociale del Paese. È lui stesso a spiegare di che cosa si tratta: «È una specie di estetica della violenza che ha preso piede anche nella musica e nel cinema, persino nell’opera, nella danza, nelle arti plastiche. È un movimento culturale, non si tratta di opportunismo, come dice qualcuno. Per noi è come scoprire un giacimento di metalli preziosi, ci sarà chi porterà alla luce le pepite migliori e chi raschierà soltanto la superficie. Chi si occupa di questo registro estetico del romanzo sociale ha le palle per scrivere di questo fenomeno perché è cresciuto qui e conosce ciò di cui parla».

Il suo primo romanzo, Un asesino solitario, risale a più di vent’anni fa e la sua opera è stata fin da subito elogiata dalla critica per la crudezza e la veridicità con cui descrive la malavita messicana. Qualche anno più tardi l’apparizione del carismatico detective seriale El Zurdo Mendieta gli ha poi permesso di catturare l’attenzione di lettori affezionati di tutto il mondo e di essere tradotto in più di dieci lingue. «Adesso in Messico il genere noir è diventato più solido sostiene Mendoza oltre a me c’è una nuova generazione di autori che si sta facendo strada. Parlo di romanzieri ma anche di saggisti come Anabel Hernàndez e Diego Osorno, che scrivono splendidi libri di non fiction. Non è vero, come si va dicendo, che esaltiamo la violenza. Prendiamo semplicemente spunto dalla realtà».

Fra i tratti più caratteristici dello stile di Èlmer Mendoza spicca una notevole cura nel riprodurre la varietà del discorso popolare dei suoi personaggi, uno dei motivi che nel 2011 l’hanno portato ad entrare a far parte dell’Accademia della Lingua messicana. «La lingua che lo scrittore usa meglio è quella che gli è più intima spiega – e nel mio caso, dal momento che vengo dal nord del Messico e da un quartiere pieno di gangster, questa è la lingua del mio cuore». Ed è proprio sulle orme di Mendoza che si muovono i nuovi talenti della narcoliteratura messicana, come Vicente Alfonso, nato nel 1977 da una famiglia di minatori, studente nelle scuole dei gesuiti e ora giornalista e scrittore di primo piano, che infarcisce di temi sociali i suoi romanzi polizieschi, tradotti anche in Italia, Germania, Grecia e Turchia.

Oppure Carlos Renè Padilla, 46 anni, autore noir di Sonora, lo Stato messicano al confine con l’Arizona, che miscela con disinvoltura poliziesco, iperviolenza, fumetto e surrealismo creando un pastiche alla Tarantino. Nel romanzo Yo soy el Araña (Io sono l’Uomo ragno), ad esempio, un anonimo poliziotto di provincia perde la memoria, si crede un supereroe e tenta di raddrizzare i torti battendosi contro sicari dei Narcos e politici corrotti.

Da segnalare anche Imanol Caneyada, vincitore la scorsa estate del Premio Hammett alla Semana Negra di Gijòn, con un romanzo noir, Litio, nel quale, oltre alla violenza del narcotraffico, affronta il tema dei minatori sfruttati dalle multinazionali a caccia di minerali pregiati per l’industria delle nuove tecnologie.

In questi mesi il fenomeno della narcoliteratura ha suscitato l’interesse di Alejandro Meter, un fotografo argentino che da vent’anni vive in California e insegna all’università di San Diego. Con la sua macchina fotografica Meter segue da anni gli scrittori di noir dell’America Latina e adesso, come regista, ha lanciato il progetto di Border Noir, un docu-film realizzato attraverso la frontiera tra Usa e Messico, con interviste, riprese con il drone, spezzoni di vecchi film e di reportage di cronaca nera presi dai telegiornali. Un filo rosso sangue che unisce Tijuana a Yuma, Ciudad Juarez a El Paso, Monterrey a Tucson.

«Il romanzo noir non può cambiare il mondo e tanto meno l’essere umano ammette lo scrittore Ricardo Vigueras, di Ciudad Juarez però lo può ritrarre. Spesso la gente non riesce a capisce ciò che accade lungo questa frontiera e ha bisogno di risposte. E a volte queste risposte arrivano grazie alla fiction».

Di fronte alla violenza dilagante, la sua concittadina Elpidia Garcia va ancora oltre: «Davanti a femminicidi, assassinii, corruzione e giornalisti uccisi nelle strade, il romanzo noir diventa la nostra trincea». E come in trincea, talvolta si muore.

Javier Valdez era uno scrittore di Culiacàn, Sinaloa, molto attivo nella denuncia dei Narcos della sua città, che attaccava con libri di non fiction estremamente precisi e documentati. I sicari l’hanno ucciso nel 2017 sparandogli per strada in pieno giorno, come monito per tutti gli altri che usano il computer per contrastare i signori della droga. «Era mio amico – racconta Elmer Mendoza – e sapeva che un giorno o l’altro sarebbe successo. Gli avevo consigliato di andarsene da Culiacàn, ma non mi ha dato retta. Non voleva scappare di fronte ai Narcos».

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