Per un po’ il «mondo alla rovescia» sembrava aver contagiato anche loro. Alla fine, però, le Forze armate hanno ritrovato il giusto equilibrio. E la soluzione più proficua. Contare su un talentuoso e sperimentato generale è, infatti, assai meglio che regalare briglia sciolta a un incontrollabile ed improvvisato scrittore. O, peggio, all’ennesimo effimero politico. Perché dietro i record di vendite e d’incassi inanellati da Roberto Vannacci e le polemiche, più o meno strumentali, suscitate dal suo libro, vi era un colossale errore di fondo. Prendere un generale che dall’Afghanistan all’Iraq ha guidato le operazioni belliche più delicate del dopoguerra e relegarlo, a soli 54 anni, tra le cartine dell’Istituto geografico militare non era una gran pensata. Era semplicemente una pretestuosa punizione per l’irruenza con cui un ufficiale – più propenso a schierarsi con i propri uomini che non con le istituzioni – aveva chiesto chiarezza sulla sindrome dell’uranio impoverito. La vicenda risale all’agosto 2018 quando il generale rientra dall’Iraq dove ha guidato la missione italiana «Prima» e l’addestramento delle forze irachene impegnate nella guerra allo Stato Islamico. La missione è il corollario di una carriera eccezionale. Una carriera durante la quale Vannacci ha seguito le missioni «top secret» delle nostre Forze Speciali in Afghanistan ed Iraq ed ha comandato prima gli incursori del 9° Reggimento Moschin e poi i parà della Brigata Folgore. A Bagdad si è però convinto che «l’uso su larga scala di uranio impoverito in Iraq sin dal 1991» sia all’origine del male oscuro responsabile della morte di 400 reduci da Balcani, Iraq e dei tumori che minano la salute di 7mila loro commilitoni. Forte di quella convinzione Vannacci presenta un esposto alla Procura militare e alla Procura della Repubblica di Roma. La denuncia è devastante. Fino a quel momento nessun generale si è schierato con le vittime della misteriosa sindrome. E questo nonostante la diatriba risalga al 1999 quando il Ministero della Difesa inizia a non riconoscere la malattia come causa di servizio. L’eresia di Vannacci seguita da un durissimo scontro con l’ammiraglio Giuseppe Cavo Dragone, allora comandante del Coi (Centro Operativo Interforze) ed oggi Capo di Stato Maggiore della Difesa, è la vera ragione del suo allontanamento da qualsiasi ruolo operativo. Ma il rimedio è peggiore del male. Segregato all’Istituto Geografico Vannacci incomincia a progettare un futuro diverso da quello prospettatogli dai suoi superiori. E butta giù, con linguaggio da caserma, un libro rivolto ad ex-colleghi e sottoposti che possono aiutarlo, con un eventuale voto, a tentare una sortita nel campo della politica. Ma grazie ad una misteriosa soffiata a «Repubblica» lo sconosciuto breviario auto-pubblicato e rivolto a un pubblico ristretto si trasforma in un manifesto capace d’imbarazzare il mondo della politica e quello della Difesa. Una cosa però è certa. Quel libello scritto con un certo rancore e senza l’indispensabile equilibrio alla fine non ci avrebbe regalato né un nuovo «maître à penser», né un memorabile politico. Invece la decisione della Difesa restituisce all’Italia un ottimo generale. E il primo a capirlo, a giudicare dalla fretta con cui ha annunciato il nuovo incarico e archiviato qualsiasi velleità politica, sembra essere proprio Vannacci.