Sugli spalti bassi le intolleranti, sulle gradinate in cima o attaccate alla rete le invasate. Chi ha sempre creduto che un mondo governato da donne sarebbe un posto più pacifico nel quale campare, non è mai stato a una partita di calcio di pulcini, esordienti o giovanissimi. Non ha mai visto di cosa è capace una donna quando è madre e tifosa del proprio figlio. Queste anime belle non si sono mai affacciate su un campetto la domenica che qui è poi l’unico giorno della settimana.
La commistione tra genitrici funziona ancora nel parcheggio desolato nel quale ci si raduna preferibilmente all’alba, tassativamente un’ora e mezza prima dell’incontro. Qualcuna si saluta baciandosi, altre limitandosi a un gesto del mento o della mano, poi defluiscono tutte assieme nel bar della società sportiva. I primi caffè della macchina appena accesa sono amari come la vita, arricciano la lingua ma ne consumano comunque a profusione per entrare in contatto con la realtà, per prendere coscienza del proprio sacrificio estremo: di essere lì, quel giorno, a quell’ora, a quella temperatura. Lo si fa per i figli ma resta il fatto che nessuna schiavitù è più turpe di quella volontaria. Restano compatte fino al botteghino che vende i biglietti ma versare cinque euro in cambio del tagliandino di carta riciclata che sembra uscito da un oratorio degli anni Cinquanta è il liberi tutti.
Entrano e si posizionano, ma non c’è assolutamente nulla lasciato al caso. È qui che si cristallizza il proprio modo di essere madri tifose. Più in basso, senza alcuna cura per la visuale ottimale, si crea la muraglia delle mamme che sono lì ma con ogni parte del loro corpo ribadiscono che vorrebbero essere altrove, che non c’entrano nulla con il luogo, la fauna, la palla. Col distacco e la distrazione durante il gioco non fanno che sottolineare che non hanno alcuna adorazione per il dio dello squallore che genera calzettoni usati, spogliatoi umidi, pallini di gomma dei campi sintetici e bicchieri di plastica. Attendono il fischio d’inizio producendo i sospiri fatali di chi non ha armi contro il proprio destino, guarderanno l’incontro solo distrattamente e statisticamente dati i rari lampi d’attenzione concessi al campo, si perderanno il gol del figlio. Parleranno con le simili accuratamente individuate e soprattutto passeranno novanta minuti con la testa tuffata nel cellulare. Sono quelle che vorrebbero togliersi di mezzo ma sfortunatamente non sono in mezzo a niente. Sognano un aperitivo ma qui un negroni sarebbe sbagliato in troppi modi diversi.
Di norma sono il cruccio e la sfida del ruvidissimo mister: fatica a comprendere che qualcosa sfugga al suo ordine marziale, detesta che tentino sempre di ritrovarsi «direttamente al campo» quando si gioca fuori casa, che rifiutino la convocazione un’ora e mezza prima, che non guardino la partita con religiosa devozione. Quindi si fa carico della sfida non richiesta di educarle, impresa molto più faticosa di quando si concentra sulla preparazione dei figli.
Poi ci sono le «altre». Loro di calcio sanno tutto, e non è affatto detto che sia meglio. Non distolgono mai gli occhi dalla partita, danno gomitate all’interlocutore (del quale ovviamente non ricambino lo sguardo) quando intuiscono il finale promettente di un’azione solo all’inizio, rispondono distrattamente al vicino di posto. Sono convinte che la tensione che mantengono influisca sul risultato. Chiamano falli, fuorigioco, linee. Suggeriscono all’erede la posizione in campo e soprattutto sono molto, molto critiche nei confronti di quel maratoneta col fischietto che non fa altro che penalizzare la squadra. L’astio ci mette un po’ a trasformarsi in insulto, ma già alla metà del primo tempo non c’è una sola decisione arbitrale che le trovi d’accordo. Allora la vedi, è lei. La fronte aggrottata, la rabbia che le galoppa dentro, la responsabilità di appianare le ingiustizie che la spinge a bordo campo facendole persino saltare le gradinate. Raggiunge la rete, l’afferra con gli artigli al gel cinese e prende la mira. Fissa l’arbitro col suo sguardo di pura intensità, privo di parole, spossante. Poi arriva l’aggettivo: cornuto!
Ecco fatto. Da quel momento in poi, la catena del disagio non si interrompe più. Il figlio sente urlare la madre, si innervosisce ed entra male sull’avversario, il cornuto gli appioppa un giallo, i compagni gli «vanno sotto» per protestare, fiocca un altro giallo, il mister dalla panchina non ci sta, urla qualcosa che ha comunque a che fare con le corna ma sceglie di interpretare l’insulto in maniera più creativa girandolo su altri membri della famiglia…
A quel punto l’indignazione delle mamme scettiche ha rotto gli argini. Provvedono a mettere ulteriore spazio tra loro e le pasionarie, anche per un fatto estetico: la stizza non ha il pregio di renderti attraente. All’improvviso solidarizzano con i genitori degli avversari, si scusano, alzano gli occhi al cielo, si imbarazzano, marcano le differenze. «Cosa ci faccio qui?!» è l’insegna al neon che lampeggia muta sulla fronte del gruppetto avulso. Fino a quando una prende coraggio, si avvicina alla spasmodica, le bisbiglia qualcosa all’orecchio. Quella stacca l’odio dall’arbitro e lo sposta sull’ignara del fuorigioco, la squadra dall’alto al basso e la sua lingua offesa si ritira per sempre nel sarcofago della bocca. Per sempre… fino al prossimo fischio.