Tanto riso amaro nel “1984” sovietico

Tanto riso amaro nel "1984" sovietico

«Protestiamo categoricamente contro la pubblicazione del nostro romanzo sulle pagine della rivista antisovietica Grani, così come contro le provocazioni che disturbano il nostro normale lavoro e pretendiamo che, d’ora in avanti, non abbia più a ripetersi una cosa simile. Data: 30.03.1971. Firme». Quattro anni dopo aver ultimato la loro «ultima opera umoristica», i fratelli Arkadij e Boris Strugatskij erano stati «COSTRETTI» a scrivere queste parole. «I sentimenti erano: la paura più umiliante, una rabbia impotente e una repulsione quasi fisiologica».

Che cosa era accaduto? Ai vertici sovietici era giunta «la notizia che La favola della Trojka non solo era pericolosa sotto il profilo ideologico, ma era stata per giunta pubblicata in Occidente, e non da un editore qualsiasi, bensì dalla rivista antisovietica Grani», stampata in Germania. Quindi, a stretto giro di posta Arkadij, come rappresentante della coppia, «fu convocato dal segretario per le questioni organizzative dell’organizzazione degli scrittori di Mosca, il comp. Il’in – non ricordo se un ex colonnello oppure addirittura general maggiore del KGB – e fu interrogato». Niente lavori forzati, come invece era accaduto a Sinjavskij e a Daniel’, e ancor prima a Solenicyn, ma un amarissimo cicchetto, con conseguente pentimento – questo sì, forzato – messo su carta. Chiosa Boris in Commenti al trascorso, la storia, composta fra il ’97 e il ’98, delle vicende editoriali di tutte le opere scritte con Arkadij: «Grazie a dio, questo testo non andò da nessuna parte».

Tuttavia il fatto resta. Ed è sintomatico di un periodo, quello in cui nacque La favola della Trojka, che così Boris descrive: «All’epoca le voci sulla riabilitazione di Stalin spuntavano quasi trimestralmente. Risuonava la fanfara, fetida e rivoltante come un attacco al gas, del processo a Sinjavskij e Daniel’. Su iniziativa dei vertici, tra gli editori si andavano diffondendo subdolamente liste di soggetti, pubblicazioni che venivano presentate come inopportune. Ci si avvicinava al cinquantesimo della VOSR (La grande rivoluzione socialista d’ottobre, ndr) e tutta la burocrazia ideologica sul tema era in fermento. Perfino all’ottimista verde-smeraldo era chiaro che il Disgelo aveva cessato il suo corso e che era arrivato il riflusso, al punto che non restava che preparar le gallette», cioè prepararsi all’arresto e alla reclusione. E oggi, quando la figura di Stalin sta conoscendo una nuova «riabilitazione» o «rivalutazione» da parte di Putin, leggere Commenti al trascorso significa leggere qualcosa che merita di essere catalogato come «realismo sovietico». Ovviamente in senso negativo.

Che cosa troviamo di così disfattista e offensivo per il popolo e per il Partito, nella Favola della Trojka ora proposta per la prima volta in italiano nella versione integrale (Ronzani Editore, pagg. 303, euro 19, traduzione di Andrea Cortese)? La Favola era pensata come il seguito di Lunedì inizia sabato, romanzo uscito nel ’64 in Unione Sovietica senza suscitare le ire del regime. Il narratore è ancora il personaggio centrale di Lunedì, cioè Aleksandr Ivanovic Privalov, un «giovane collaboratore scientifico», ma, spiega Boris, «Lunedì è un’opera allegra, umoristica (…). La favola è una satira chiara e inequivoca. Lunedì è stato scritto da ragazzi di buon cuore, da dei mattacchioni pieni di gioia di vivere. La favola è stata scritta con bile e aceto. I ragazzi pieni di gioia di vivere avean perduto l’ottimismo, la loro bontà d’animo, la disponibilità a comprendere e a perdonare e s’erano fatti sferzanti e velenosi, inclini a una percezione malevola della realtà». Insomma, in Lunedì la distopia associata alla fantascienza era ancora un gioco letterario, con molti rimandi alla tradizione nazional-popolare russa. Invece nella Favola il gioco si fa duro, perché entra in scena la critica alla grottesca ottusità della «TRREFI», la «Trojka per la Riassegnazione e REgistrazione dei Fenomeni Inspiegati».

Dunque, siamo a Kitegrad. Cioè… da nessuna parte, essendo Kite la città invisibile della mitologia russa, una specie di piccola Atlantide sulla terraferma. «Giù, sotto la scarpata, la fresca Kitea portava tra i suoi flutti cristallini acque di scolo d’un arancio velenoso. Sull’altra riva, a languire dolcemente sotto il sole, una golena acquitrinosa. Un trenino, sbuffando di bianco, strisciava lungo un dritto terrapieno giallo. Sull’orizzonte, nella foschia vaporosa, azzurrava il bordo dentellato della lontana foresta. Sopra le torri grigie della Fortezza Vecchia, scintillando dei riverberi del sole, un piccolo disco volante stava compiendo evoluzioni». Quasi un’arcadia futura, un connubio fra natura e tecnologia. L’ouverture fanta-bucolica ci presenta i nostri prodi: oltre all’io narrante Privalov, i suoi amici e colleghi Edik Amperian, Vitka Korneev e Roman Oira-Oira. Sono «maestri», «maghi» dell’ISSTEMS (Istituto di ricerca scientifica e tecnologica per la magia e la stregoneria), e sono giunti lì per conferire con la Trojka, anch’essa composta da quattro (non da tre) membri: Lavr Fedotovic Vunjukov, un anonimo colonnello a riposo, Rudolf Archipovic Chlebovvodov e Farfurkis. Nel locale dove la Trojka si riunisce, e nei dintorni, assistiamo al serrato confronto fra i Nostri e quelli che subito avvertiamo come i Nemici. Motivo del contendere: i misteriosi «fenomeni inspiegati» (quali evidentemente sono, in qualità di maghi, anche i Nostri, senza che i Nemici se ne accorgano…) su cui pende, come una spada di Damocle, il Sigillo distruttore della Trojka: ciò che non potrà essere «riassegnato» e «registrato» verrà distrutto.

Ecco quindi sfilare, introdotti da Zubo, il sovrintendente della Colonia dei Fenomeni Inspiegati, e sottoposti anche all’occhiuto esame del professor Vybegallo, membro del dipartimento di Conoscenza Assoluta: la «macchina euristica» presentata dall’anziano Makin, uno strumento che somiglia a una vecchia macchina per scrivere Remington ma elabora dati e risponde alle domande e dunque ci fa pensare alla rete di internet, o addirittura all’Intelligenza Artificiale; il delfino intelligente Isaak; la piovra Spiridon, poliglotta e insofferente; un essere alieno composto da una sostanza semiliquida; il plesiosauro Lizaveta. Poi, in esterna, seguono: il Pantano della Vacca, luogo infestato dalle zanzare, e lo Stregato, cioè una collina irraggiungibile dove abita un guardaboschi con alcuni animali, compresa una capra onnisciente.

Ma soprattutto, oltre allo pterodattilo Cosimo, un altro alieno, di nome Konstantin, con quattro occhi e quattro braccia, nato nel 213 prima di Cristo, figlio di novantaquattro genitori di cinque generi sessuali diversi che lavora, sul pianeta Konstantina della stella Antares, nel ramo poesia, ed è specializzato in versi anfibrachi. Konstantin viene in pace, anzi in panne, perché il suo veicolo spaziale è in avaria, e dopo aver chiesto aiuto per ripararlo propone uno scambio culturale tra il suo pianeta e la Terra. È questo l’unico momento in cui la Trojka, per voce del leader Vunjukov, si mostra umana: non siamo ancora pronti, dice, venite a trovarci fra una cinquantina di anni…

Poche pagine prima c’era stato un colpo di scena: il mite e giovanissimo Edik aveva lanciato ai suoi compagni l’idea di «rimoralizzare» la Trojka rivolgendosi «agli organi superiori». Fiutato in qualche modo il pericolo, che cosa fa il potere per sopravvivere? Ciò che fa sempre: fa copia-incolla reiterandosi, istituendo una «Sottocommissione per i casi minori», ovviamente nelle persone di Privalov e soci. I quali, nati incendiari, moriranno pompieri. Questa non è fantascienza, ma una storia che abbiamo già visto migliaia di volte e milioni di altre volte vedremo. In Russia e altrove.

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