Il paradosso del nuovo assalto al Palazzo. Si va a processo senza le accuse dei pm

Il paradosso del nuovo assalto al Palazzo. Si va a processo senza le accuse dei pm

Durante la fase di tangentopoli un politico – era prassi consolidata – veniva azzoppato con un «avviso di garanzia», con il paradosso che un istituto inventato in una logica garantista si trasformò in una sorta di ghigliottina visto che il combinato disposto tra la pavidità della vecchia classe dirigente e la violenza del populismo giustizialista impose una sorta di automatismo per cui l’indagato era costretto alle dimissioni. Con questo strumento fu fatta fuori la Prima Repubblica.

È passata tanta acqua sotto i ponti da allora e ora il nuovo strumento per azzoppare l’avversario politico è la richiesta di dimissioni per il rinvio a giudizio: non è neppure cominciato il processo e pur in presenza di tre gradi di giudizio l’imputato che magari sarà assolto, ha la carriera politica menomata. L’assurdo è che per i nuovi giustizialisti, addirittura, non fa nessuna differenza che il Pm chieda l’archiviazione del caso e che sia il gip ad imporre la celebrazione del processo. Per loro sono quisquilie, particolari di poco conto, anche se poi si crea una condizione surreale: il Pm che non è convinto dell’accusa è obbligato a sostenerla, sai con quale convinzione, nel processo. Ma intanto il politico viene messo alla sbarra, quello è il vero obiettivo. È successo a Matteo Salvini da ministro dell’Interno per le navi di migranti delle Ong tenute a largo dai porti italiani e ora al sottosegretario alla giustizia, Andrea Delmastro, per il caso Cospito. Tutte inchieste con una forte valenza politica. E che nelle vicende processuali ad esse collegate segnalano un fenomeno: spesso capita che i giovani Pm, meno ideologizzati dei loro predecessori, esprimano posizioni non condizionate da valutazioni extra-giudiziarie per cui sono più inclini all’archiviazione di accuse che non stanno in piedi; e che i loro colleghi Gip, più avanti in carriera e figli di una generazione che si è cibata della cultura della «parzialità», pardon dell’impegno «sociale» delle toghe, li costringano ad andare a processo.

Sono le nuove «ghigliottine». E non importa che ormai con questo andazzo i magistrati più ideologizzati abbiano fatto venir meno la fiducia della stragrande maggioranza dell’opinione pubblica verso la magistratura: a loro interessa, mossi da un riflesso pavloviano, mettere in moto il cosiddetto circuito mediatico-giudiziario. Il risultato di questa perversione è sotto gli occhi di tutti: è sputtanata la politica ma anche la magistratura, insomma, violare il tempio con il peccato della «giustizia di parte» ha fatto venir meno la fiducia verso il cuore delle istituzioni.

Ecco perché bisognerebbe ragionare su delle regole «speculari» che salvaguardino l’autonomia della politica dalla magistratura, esattamente come in questi anni è stata garantita l’autonomia della magistratura dalla politica. I nostri padri costituenti escogitarono l’immunità parlamentare: probabilmente il populismo che la fa da padrone a destra come a sinistra non rende possibile il ripristino di questa parte della Costituzione (qui ognuno difende ciò che gli fa più comodo della carta!). Ma allora ci si inventi qualcos’altro. Del resto il problema delle interferenze del potere giudiziario su quello politico c’è sempre stato, non è roba dei nostri giorni. E ognuno ha dato la sua soluzione. I rivoluzionari francesi sapendo che la maggior parte dei magistrati erano espressione dell’ancien regime, costruirono un sistema giudiziario in cui il magistrato doveva «applicare» le leggi. Il nostro sistema più garantista prevede, invece, che il giudice «interpreti» le leggi. Ma come si dice, la strada per l’inferno è lastricata di buone intenzioni, visto che alla fine quell’impostazione ha aperto la strada a tante interpretazioni di parte.

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