In questi giorni, sentiamo spesso dire che ai giovani mancano i punti di riferimento, e per questo si affidano a cattivi maestri o finiscono in balìa di se stessi e dei propri sentimenti. I diciottenni sono convinti di essere la misura di tutte le cose, è l’intera società, dalla scuola ai mass media, a farglielo credere. Nei casi patologici, i ragazzi pensano di essere persino i padroni della vita e della morte altrui. Così la cronaca nera è invasa da omicidi strazianti, ultimo quello di Giulia Cecchettin, trucidata barbaramente dal suo ex fidanzato.
Una volta, il poeta Davide Brullo, in una conferenza, ha portato l’attenzione del pubblico su un fatto tanto innegabile quanto suggestivo. Guardate la postura in cui vivono i giovani: col capo chino sullo smartphone. Non è un fatto privo di conseguenze. Lo schermo seducente del cellulare impedisce loro di guardare in alto, verso le stelle, e in avanti, verso l’orizzonte. Per milioni di anni, l’uomo, per orientarsi, si è servito degli astri e dell’osservazione diretta del paesaggio. Non è più così. Se sono indecisi su quale direzione prendere, i ragazzi, e non solo, si affidano ai navigatori digitali sul telefonino. Non sono (siamo) più loro (noi) i veri padroni dello spazio, sono i loro (nostri) smartphone. È una mutazione antropologica, e sì, toglie ogni reale punto di orientamento. È impossibile che questa novità non abbia ripercussioni sul modo di concepire il mondo e gli avvenimenti del mondo.
Possiamo aggiungere una osservazione. Dolorosa. Guardare in alto significa anche guardare a Dio e al suo figlio, che ci ha lasciato precetti seguiti, in occidente, generazione dopo generazione, per due millenni. L’esempio di Gesù ha insegnato, tra mille altre cose, la libertà e la dignità di ogni essere vivente. Valori obsoleti, persi nel nulla digitale, dove tutto è uguale a tutto, trenta secondi di filmati a testa. Ha vinto il regno dell’effimero, altro che Regno dei cieli.
Guardare avanti significa anche guardare al progresso, calcolare il tempo giusto per raggiungere un obiettivo, mettersi in moto dopo aver disegnato una mappa coerente del mondo. Ma anche questo si è perso nel nulla digitale, dove il progresso si è dissolto negli aggiornamenti delle applicazioni. È il progresso 2.0, 3.0, 4.0. Per carità, non è una tirata contro la tecnologia, sappiamo bene quale valore abbia e quali vantaggi offra. Ma se la tecnologia sostituisce l’esperienza del reale, beh, ci attende un futuro gelido come le stanze in qualche luogo sottoterra, dove l’unico rumore è il ronzio dei server.
Non è un film di fantascienza, è il nostro presente, fatto di mostri che non si capisce da quale buco oscuro saltino fuori; fatto di reazioni isteriche di breve durata, tanta indignazione seguita da tanta fretta di rimettersi davanti allo schermo e dire la nostra nella fogna dei social network; fatto di grottesche polemiche politiche, che riescono a strumentalizzare anche la pura violenza, è colpa mia, no è colpa tua, facciamo un gran rumore nei talk show e poi dimentichiamoci di tutto, in fondo non è toccato a noi.
Sì, ai giovani mancano i punti di riferimento. Glieli abbiamo levati noi, o meglio una società che, a sua volta in confusione, ha scelto modelli di sviluppo adatti alla circolazione della merce ma non alla circolazione degli esseri umani. Gli antichi greci, giunti sulle sponde della penisola italiana, costruirono città magnifiche in cima ai colli. Poi tracciarono strade che conducevano dalle alture al mare. Cosa doveva essere, allora, discendere pieni di emozione verso l’azzurro, di giorno, o il nero, di notte, appena increspato di bianco delle onde… Voleva forse dire presentarsi al Creato nella propria umiltà o nel proprio indomabile desiderio di conoscerlo.
Oggi quelle strade millenarie sono state massacrate in nome del turismo più straccione e irrispettoso della bellezza. Da quelle strade non si vede più il mare. Si vede la fila interminabile di chiringuitos dove la gente va a bere, quasi inconsapevole dello splendore che ha intorno. Davvero: come si fa a crescere in una società che ha sostituito le onde con lo spritz e la felicità con l’happy hour?
Giacomo Leopardi sfogava il suo malessere esistenziale con le «vaghe stelle dell’Orsa» e si confessava con l’astro più luminoso e malinconico, la Luna: «O graziosa luna, io mi rammento/ Che, or volge l’anno, sovra questo colle/ Io venia pien d’angoscia a rimirarti:/ E tu pendevi allor su quella selva/ Siccome or fai, che tutta la rischiari». Anche il conte Giacomo, una volta, trovò un ostacolo, una siepe, al suo sguardo. Ma il conte Giacomo aveva fatto esperienza dello spazio infinito e del silenzio che dominava le notti. Ne uscì un capolavoro della letteratura italiana: «Sempre caro mi fu quest’ermo colle,/ e questa siepe, che da tanta parte/ dell’ultimo orizzonte il guardo esclude./ Ma sedendo e mirando, interminati/ spazi di là da quella, e sovrumani/ silenzi, e profondissima quiete/ io nel pensier mi fingo, ove per poco/ il cor non si spaura». Oggi forse scriverebbe: «Sempre caro mi fu questo chiringuito» e poi andrebbe a farsi un paio di bicchieri felice di poter mandare qualche messaggino a gente che non vede da vent’anni.