“Ora indago il lato oscuro della Roma benestante”

"Ora indago il lato oscuro della Roma benestante"

Manrico Spinori della Rocca (e avrebbe anche una decina di altri nomi, oltre al primo, di verdiana passione…), «Pm in Roma», è molto diverso dai personaggi a cui ci ha abituato il suo creatore, Giancarlo De Cataldo. Tarantino, magistrato per quarant’anni, De Cataldo è il narratore della Roma più nera, quella spietata di Romanzo criminale (da cui il film di Michele Placido e la serie di Stefano Sollima) e quella della nuova mafia di Suburra (da cui il film di Stefano Sollima e la serie Netflix). Ma dal 2020 il «contino» Manrico Spinori ha fatto capolino nella sua produzione romanzesca e siamo già alla quarta inchiesta: Colpo di ritorno (Einaudi), che De Cataldo presenterà a Milano sabato 2 dicembre (ore 17,30, Rizzoli Galleria), in occasione del Noir in Festival. Questa volta, il nobile pm è alle prese con l’omicidio di un mago che, fra i clienti, vantava vip, starlette e politici: insomma, un «caso spinosissimo»…

Giancarlo De Cataldo, come si è imbattuto in Manrico?

«Tutti hanno un personaggio seriale: lo volevo pure io… Ed è venuto a trovarmi un signore elegante e aristocratico, con cui condivido due aspetti: la passione per l’opera lirica e la totale lontananza dai social. L’ho immaginato così, volutamente diverso: innanzitutto è un pubblico ministero, e non un poliziotto; non mangia, cioè non ha grande feeling con la tavola; non vive amori disperati, anzi, è parecchio farfallone, e ha una storia in ogni libro».

In virtù del Trovatore da cui deriva il nome, Manrico deve trovare ogni volta l’opera giusta per risolvere il caso?

«Sì, ed è faticoso, anche per lo scrittore… Qui l’opera è difficile, ma il caso può essere risolto anche da chi non la conosca».

C’è una Roma ben diversa da quella dei libri precedenti.

«Perché non esiste una sola Roma. E Manrico ha questo legame con il procuratore capo, che lo fa indagare sui delitti di certi ambienti altolocati, raffinati. È un gioco. Però, dopo tanti delitti di strada, legati al lato oscuro, alla mafia, alla Magliana, volevo anche far riflettere su questo: il crimine e il male non sono un’esclusiva de poveracci, anzi, a volte i benestanti sono molto crudeli. Non ci sono molti santi in queste storie criminali».

Però c’è l’umorismo?

«Sì, nelle storie di Manrico c’è della commedia: è un modo più leggero di raccontare, anche se parlo sempre di crimini».

Perché?

«Perché a uno scrittore piace cambiare, e anche perché ce l’ho un po’ dentro, questa vena umoristica. Non ho abbandonato il mondo oscuro della Roma criminale, però quando scrivo ho due collezioni: l’abito da sera e quello da jogging».

Chi è Manrico Spinori?

«Una persona normale. Non è uno con la missione di salvare il mondo, gli piacciono la vita e la musica, ha i suoi momenti di malinconia e ama profondamente le donne. Una persona gentile, in un mondo che urla».

L’ispettora Deborah Cianchetti, con cui lavora, è invece l’opposto?

«Spinori ha una squadra investigativa tutta al femminile, e questo è un elemento di realismo: quarant’anni fa, quando entrai in magistratura, c’erano sette uomini e tre donne; oggi è il contrario. Ora, Manrico è un radical chic, uno di ottima famiglia, mentre la Cianchetti viene dal popolo: sono due Italie che convivono e, quando diventano alleate, riescono a risolvere i casi più difficili».

Tornerà a raccontare la Roma più dura?

«Sa, gli scrittori sono dei gran bugiardi… Sono il primo a non saperlo. In questo momento ho appena finito il prossimo romanzo di Manrico, che uscirà nel 2024, e sono in una fase di vuoto. Non so quale sarà la prossima mossa ma, se mi svegliassi con una visione di una storia di coatti, non ci penserei due volte e mi metterei subito a scriverla».

«Criminale» è l’aggettivo che più ricorre nei suoi titoli.

«È legato tutto a Romanzo criminale, che ha avuto un’importanza strategica nel ritagliarmi una figura di appassionato/narratore delle vicende criminali. Che conosco bene, perché ci ho lavorato per quarant’anni…»

Una definizione di «criminale»?

«A livello base è chi si mette contro la legge. Ma, quello che cerco io, è di capire quanto del lato criminale ci sia in ciascuno di noi, anche in chi non commette crimini, ma magari li sogna, o li progetta. È un discorso di luce e tenebre, e tutti ne abbiamo».

Manrico e l’opera lirica, il mago col nome che richiama Lawrence Durrell: perché i riferimenti letterari?

«Così si accorgono che anche un rozzo giallista ha letto più di due romanzi in vita sua… È uno scherzo, dopo tante cose durissime piace anche a me un po’ di commedia».

Guarda anche lei Woody Allen?

«Adoro Woody Allen. Non a caso, proprio lui ha diretto Match Point, uno dei massimi noir nella storia del cinema: il destino appeso alla rotazione di una monetina, quasi mistico».

Che differenza c’è fra lavorare a un romanzo o a un film o una serie?

«Due principali. Il romanzo è solitario: lo scrittore verso il suo romanzo è Dio, decide tutto; in una serie, partecipa a un Cda in cui tutti hanno parità di voto. E poi le serie sono operazioni produttive molto costose. Sono mondi diversi, e amo entrambi; però lavorare da soli su un manoscritto è la cosa in assoluto più difficile».

Fra i tanti personaggi che ha raccontato, ce n’è uno che ama di più?

«Sono tutti figli miei. Però le confesso che non mi sono mai perdonato di avere fatto morire il Libanese a pagina 142 di Romanzo criminale».

Il Libanese è il Libanese.

«Eh, appunto. In un’altra vita me lo porto avanti fino alla fine».

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