A volte gli stereotipi entrano in tribunale

A volte gli stereotipi entrano in tribunale

Gentile Vittorio,

Le scrivo una richiesta di un aiuto o quantomeno di un consiglio. Cercherò di essere brevissimo per rubarle il meno tempo possibile. Mio figlio (19 anni), agosto 2021, si trova sotto casa (viviamo nei pressi della stazione a Bergamo), uno spacciatore, tra i peggiori criminali della zona, cerca di aggredirlo con una bottiglia in mano. Essendo apicoltore aveva in tasca un coltello, stupidamente lo toglie per spaventarlo intimandogli di allontanarsi, questo al contrario lo sgambetta e gli salta addosso, ovviamente mio figlio, spaventato, mena fendenti come può ed uno risulta essere letale. È partita la campagna mediatica del tipo: ragazzino di buona famiglia razzista, uccide tunisino. Noi non abbiamo fatto dichiarazioni e ci siamo fidati della giustizia. Il ragazzo ha preso 21 anni in primo grado e anche in appello. Perché ovviamente non è bello dire che il tunisino era un criminale, che era ubriaco, che era drogato, però è normale tacciare di razzismo anche chi non lo è. Ho assolutamente bisogno di creare attenzione su questo caso perché, nell’indifferenza di tutti, mio figlio, un ragazzino, lavoratore, incensurato, rischia di essere sbattuto a marcire in galera. Sono stato conciso, ma ho tutte le prove, che peraltro sono uscite in dibattimento, per dimostrare che mio figlio è vittima di pregiudizi e del politicamente corretto, vorrei che fosse giudicato secondo diritto.

Se potesse aiutarmi le sarei veramente grato.

Con stima,

John Patelli

Caro John,

comprendo il tuo sgomento e la tua sofferenza di padre, il tuo senso di disperazione e di impotenza davanti alla possibilità che tuo figlio, così giovane, trascorra gli anni più belli e importanti della sua esistenza rinchiuso in galera, con addosso il marchio terribile di omicida e, come se non bastasse, anche l’etichetta di razzista. Accuse che tu non accetti, ben conoscendo i valori e i principi che hai trasmesso a tuo figlio. Non disponendo delle carte e non essendo un giurista, posso fare poco per te e non posso esprimermi sul caso specifico, non sarebbe né corretto né opportuno. Tuttavia, posso dare spazio a questa storia, pubblicando la tua lettera e rispondendoti. E spero che in qualche maniera questo mio piccolo gesto possa consolarti. Cosa fare? Innanzitutto, affidati ad un difensore all’altezza per presentare un ricorso in Cassazione. Manca ancora un grado di giudizio e spesso assistiamo ai ripensamenti della Giustizia, la quale, analizzando ancora le prove, può ribaltare quello che prima aveva deciso. Tu sostieni che il ragazzo sia vittima di pregiudizi e del politicamente corretto e che questo abbia in qualche modo viziato la sentenza del tribunale che lo ha condannato, ovvero che lo ha ritenuto colpevole del reato contestatogli. Cosa ne penso? Beh, non lo posso di certo escludere, insomma, questa tesi non mi stupisce, non mi meraviglierei se fosse così come tu racconti. E con questo non intendo puntare il dito contro la magistratura, contro la categoria dei giudici, bensì soltanto specificare che anche i magistrati vivono immersi in questo clima, in questa cultura, che in qualche maniera ci condiziona tutti. Il conformismo ci induce a considerare i migranti come individui deboli, fragili, buoni, esclusi e vessati dall’uomo bianco, italiano, europeo, che li rifiuta, che non vuole accoglierli, che li vorrebbe addirittura eliminare. Questi stereotipi sono incisi nella mentalità collettiva, per cui davanti ad un immigrato accoltellato è facile anche e soprattutto per i media concludere che si tratti di un crimine di odio, dovuto a motivi razziali. Chissà perché, quando la vittima è un extracomunitario, questo elemento della nazionalità viene sottolineato; quando invece l’extracomunitario è lo stupratore, il molestatore, l’aggressore, l’assassino, ecco che la nazionalità viene omessa. Queste operazioni, oltre ad essere clamorosamente disoneste, rappresentano la prova della nostra malafede, della nostra inclinazione a graziare il migrante e a criminalizzare l’uomo indigeno, ossia il maschio italiano. Possiamo soltanto sperare e augurarci che i giudici che dovranno pronunciarsi sulla vita di suo figlio non scadano in queste logiche dominanti, mantenendo quella onestà intellettuale e quella razionalità che consentono l’applicazione del diritto, libera da qualsiasi altra influenza di carattere ideologico.

Ipotizzando che la ricostruzione dei fatti sia quella che tu narri, mi riesce difficile immaginare che a tuo figlio non possa essere riconosciuta quantomeno la legittima difesa putativa, ossia il convincimento in buona fede ancorché erroneo di trovarsi in una situazione di pericolo tale da non lasciare alternative alla difesa dall’aggressore. In tal caso tuo figlio risponderebbe di omicidio colposo (e non già volontario), con una pena assai più lieve. Per il resto, come ho già scritto, puoi solo augurarti di trovare un giudice immune da condizionamenti ideologici o culturali. Ti garantisco che ne esistono ancora.

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