«L’elemento forte della scenografia di quest’opera è l’alabastro, usato sia nell’architettura civile che religiosa. Un elemento che ha un odore, anzi puzza di incenso, di Chiesa. Alla fine a vincere nel Don Carlo è il Grande Inquisitore, perché muove tutti quasi fossero dei burattini. A dominare è la Chiesa e il potere che aveva e che purtroppo hanno ancora tante religioni. I due temi importanti di questo titolo sono le due disgrazie di questo mondo: il nazionalismo e la religione». Parole fra il duro e il naïf di Lluis Pasqual, il regista di Don Carlo, l’opera di Giuseppe Verdi che il 7 dicembre apre la stagione della Scala con Riccardo Chailly sul podio, e nella conferenza di presentazione di questa prima piuttosto basito (stesso dicasi del sovrintendete Dominique Meyer) per le parole e una parolaccia del regista.
Pasqual è politicamente scorretto con tutti. Con gli Inglesi («Fabbricatori di bugie»), con uno degli sponsor chiave, Giorgio Armani («Tutti saranno vestiti di nero nel Don Carlo, ma non perché la corte fosse triste, all’epoca era segno di ricchezza. Cosa non diversa da ciò che ha fatto Armani che ci ha vestiti tutti di nero, nessuno si sognerebbe di dire che è triste»).
In prima fila siede il soprano russo, oltre che stellare, Anna Netrebko, sarà Elisabetta; nell’illustrare come tratterà una delle scene madri dell’allestimento, l’autodafé, il regista spiega che ha evitato «sfilate di bandiere. Ho voluto far vedere il dietro le quinte, raccontare come si preparano gli atti di propaganda, come le sfilate in Russia o in Corea».
Una cosa è certa. Sarà una produzione classica, con i cantanti messi nelle condizioni di poter cantare dunque mai di spalle, mai sperduti in spazi enormi, semmai posizionati nella parte anteriore del palcoscenico, «come il primo piano al cinema» (Pasqual). La cosa soddisfa i cantanti-personaggi principali. A partire da Francesco Meli, nel solo del titolo, quindi Netrebko, Luca Salsi che darà voce a Rodrigo Marchese di Posa e Michele Pertusi – al suo primo 7 dicembre – a Filippo II, quindi Elina Garanca che sarà la Principessa d’Eboli. Cantanti di serie A, senza i quali «sarebbe impensabile fare Don Carlo per le difficoltà vocali dei solisti e del coro, e la complessità enorme di un’opera fatta tutta di dialoghi», spiega Chailly che proporrà la quarta versione di Don Carlo, quella che Verdi approntò ad hoc per la Scala, prosciugata e con più nerbo rispetto alla versione parigina, succinta nei suoi 4 atti.
Opera che riprende, e romanza, personaggi e alcune situazioni storiche della Spagna cinquecentesca. È un concentrato dei tipici temi verdiani, si va dallo scontro tra padre e figlio, Filippo II e Don Carlo, alle passioni amorose pur frustrate: Carlo ama Elisabetta che però è la sposa del di lui padre Filippo II a sua volta consapevole che la moglie giammai l’amò. C’è il tema dell’amicizia di Rodrigo e Don Carlo, anche se Salsi, confessa, forse non era poi un’amicizia così disinteressata: l’eroe Rodrigo, proiezione del figlio ideale di Filippo II, forse avrebbe voluto sfilare non solo la spada ma anche il futuro ruolo a Don Carlo? C’è un popolo sottomesso, quello delle Fiandre, quindi lo scontro fra il potere temporale e religioso.
«L’ho concepito come un tragedia shakespeariana», spiega il regista. Che mette al centro della scena una torre d’alabastro che si muterà in plurimi spazi, pure nella prigione dove finirà Carlo punito dal padre. La torre muta aprendosi a spazi più intimi adatti ad accogliere i tanti momenti di solitudine dell’opera. Solitudine generata dal peso della corona – che vedremo grande e lucente – ma anche di una corona che stenta ad arrivare – Don Carlo chiede al padre di poter lottare nelle Fiandre, chiede di avere un ruolo: non l’avrà, così come Verdi non gli concede neppure un’aria. Carlo finisce sempre in duetti o terzetti. Un antieroe, che alla fine non suscita né simpatia né empatia.