È benvenuto il libro di Anna Maria Matteucci, Nicola Matteucci, mio fratello. Ricordi, epistolari e scritti inediti (Il Mulino, pagg. 296, euro 25), che ci stimola a ripensare la figura del grande studioso, che tanta importanza ha avuto nella cultura politica dell’Italia repubblicana. Matteucci è stato definito «un liberale scomodo»: una definizione che sottolinea giustamente l’originalità del suo pensiero. Negli anni Sessanta-Settanta il filosofo bolognese condusse una vigorosa battaglia per ripensare e riproporre il costituzionalismo, contro il positivismo giuridico di ispirazione kelseniana, che affermava il primato dello Stato sull’individuo e sui suoi dirittti, e che aveva in Norberto Bobbio il suo rappresentante più influente. Per Matteucci il costituzionalismo era la dottrina liberale per eccellenza, perché esso si propone di garantire i diritti di libertà dell’individuo e concepisce la costituzione come uno strumento per limitare i poteri del governo.
Il filosofo bolognese si era formato all’Istituto di studi storici di Napoli, sotto la guida di Benedetto Croce e di Federico Chabod. Ma crociano ortodosso non fu mai. Nel 1972 egli pubblicò uno dei suoi libri più importanti, Il liberalismo in un mondo in trasformazione, in cui faceva i conti con il liberalismo di Croce, per delineare una propria concezione del liberalismo all’altezza dei tempi nuovi. Secondo Matteucci c’era un limite molto serio nella visione crociana del liberalismo. Il pensatore napoletano avrebbe dovuto abbandonare la «filosofia dello spirito» per la scienza empirica della politica, al fine di analizzare i diversi sistemi politici, stabilendo tipi e classi per mezzo della logica classificatoria, e formulare leggi empiriche attraverso la ricerca di conformità o difformità di effetti. Ma Croce, diceva Matteucci, pur riconoscendo la funzione della scienza politica, non l’aveva vista come parte integrante di una moderna cultura liberale.
Per il filosofo bolognese, insomma, si doveva passare da una teoria filosofica del liberalismo a una teoria empirica, da una fondazione «metafisica» del fine (la libertà) a un’analisi empirica dei mezzi (le istituzioni non solo politiche, ma anche sociali ed economiche) per costruire la società liberale. Un liberalismo così inteso doveva aprirsi alle scienze sociali: cosa che a Croce non era riuscito di fare. E tuttavia della concezione crociana del liberalismo restava viva, secondo Matteucci, una dimensione fondamentale: che il liberalismo non poteva essere ridotto a mero utilitarismo, e che la libertà doveva essere intesa come il solo e vero ideale morale. D’altronde, senza l’amore per la libertà, anche le istituzioni liberali decadono. In questo modo Matteucci, mentre sottoponeva a una profonda revisione il liberalismo crociano, al tempo stesso ne conservava l’alta ispirazione etica: se l’idea della libertà non vive nelle menti e nei cuori, non c’è ingegneria istituzionale che possa salvare la società liberale.
La difesa del costituzionalismo liberale, della libertà dell’individuo in quanto persona e dei suoi diritti fondamentali ha sempre caratterizzato la riflessione di
Matteucci. Di qui la sua ferma opposizione al comunismo in un Paese come l’Italia che aveva il più forte partito comunista dell’Europa occidentale. Nel 1957 il filosofo bolognese scrisse che per lui quello comunista era «un mondo chiuso e triste, dentro il quale non ci sono tensioni né esperienze, la cui unica preoccupazione è quella di conservarsi per un’occasione della quale si è perduto ormai il senso della scadenza… Noi non abbiamo ammirazione per i comunisti, non abbiamo stima dei loro dirigenti».
Allo stesso modo Matteucci non esitò, nella stagione sociale e politica apertasi in Italia dopo il Sessantotto la violenta contestazione nelle università e nelle fabbriche a condurre una ferma battaglia contro il populismo. «La democrazia populistica egli disse è caratterizzata, sul piano della cultura politica, dall’insorgenza di un nuovo clima di idee semplici e di passioni elementari (…) da un diffuso atteggiamento di rancore e di invidia contro le aristocrazie (lo specialista, l’esperto, lo studioso), in nome di un estremo egualitarismo». Il populismo era la forma peggiore di degenerazione della democrazia demagogica e poteva essere contrastato solo dalla cultura liberale, con la sua difesa dei diritti fondamentali della persona: una difesa che rifiutava qualunque forma di egualitarismo demagogico e valorizzava i meriti e i talenti degli individui. Matteucci condusse la sua battaglia antipopulistica scrivendo su riviste importanti (fu direttore del Mulino per parecchi anni) e sul quotidiano Il giornale, di cui fu autorevole editorialista.
Parlare della vastissima produzione scientifica del filosofo bolognese è qui impossibile: dagli studi sulla storia del costituzionalismo alla cura delle opere di Tocqueville, di cui fu il maggiore studioso italiano, ai molti lavori sulla democrazia americana.
Merita un cenno (il libro della sorella Anna Maria ci spinge a farlo) la durissima prova che Matteucci dovette affrontare da giovane (aveva 19 anni), e di cui egli non parlò mai (fu Indro Montanelli a rivelarlo): nel maggio 1945 suo padre si recò a ispezionare alcuni suoi possedimenti agricoli, ma non fece più ritorno, né il suo corpo fu mai ritrovato. Il ricco agrario (che non aveva mai aderito al fascismo e che non si era mai occupato di politica) era stato ferocemente punito da coloro che aspettavano l’ora «x» per imporre una nuova dittatura al nostro Paese.