Il mistero di Casanova. Seduttore modesto e grande avventuriero

Il mistero di Casanova. Seduttore modesto e grande avventuriero

C’è intorno a Giacomo Casanova un mistero che si ripresenta a ogni nuova biografia che lo vede protagonista, come è ora il caso del Casanova di Alessandro Marzo Magno (Laterza, pp. 318, euro 20). Detto in breve, perché di quel Settecento che fu un secolo di avventurieri e di libertini, solo Casanova è diventato l’emblema e il simbolo? Perché, ancora vivente, le sue memorie erano già oggetto di curiosità, un decennio dopo la sua morte il suo manoscritto terreno di caccia, la sua pubblicazione, infine, per quanto censurata, storpiata e mal tradotta l’inizio di un interesse letterario senza precedenti, Stendhal, Heine, Schnitzler, Hesse, Màrai, per fare solo alcuni nomi?

Prima di provare a dare una risposta, vale la pena rilevare alcune stranezze. La bellezza, per esempio. Di là da qualche boutade, quella del principe di Ligne, per esempio, «sarebbe un gran bell’uomo se non fosse brutto», stando ai ritratti dell’epoca, alle sue stesse descrizioni, agli smacchi in campo femminile da lui candidamente riportati, Giacomo era sì prestante, ma troppo scuro di carnagione, gli occhi lievemente sporgenti, un naso ingombrante: era insomma fuori norma rispetto a un secolo e a un mondo dove il corteggiamento, la seduzione e l’ars amandi rientravano nei canoni della lievità, della delicatezza, delle ciprie e dei belletti. Era un outsider, rispetto al suo tempo, e quell’essere al di fuori delle norme non ne fece il rappresentante per eccellenza, ma semmai un soggetto per amatori, amatrici nel suo caso, amanti di un genere particolare, elitario. Deriva anche da questo il paradosso del seduttore per antonomasia che in realtà sedusse poco: 116 il numero delle sue conquiste, in quarant’anni di vita dedicati all’altro sesso, non sono poi un numero straordinario. Il catalogo del Don Giovanni mozartiano recita ala sola voce «Ispagna» «già mille e tre» e sarà pure un’opera di fantasia, ma stava a indicare lo Zeitgeist, lo Spirito del tempo

Una seconda stranezza ha a che fare con la sua autobiografia, quella Storia della mia vita frutto di «una memoria dannata» messa al servizio «di una filosofia della superficialità», per dirla con Stephan Zweig. In realtà i Capitulares, gli appunti trovati fra le sue carte, raccontano di come, nel corso di una vita, Casanova abbia fissato proprio ciò che la memoria avrebbe potuto non ricordare, sono la testimonianza di chi è consapevole di vivere un’esistenza che, successivamente, sarebbe valsa la pena raccontare: la vive insomma come un’autobiografia in progress, in divenire, ed è già consapevole della sua unicità. Quanto al suo essere superficiale, privo di profondità, bisognerebbe andare cauti. Ci sono fra le sue carte più di un migliaio di pagine di considerazioni filosofiche, proprie di chi scrive per chiarire meglio a sé stesso il senso della propria esistenza e anche questo interrogarsi intorno al modo di affrontare la vita fa parte del mistero di Casanova, ovvero il suo essere qualcosa di completamente diverso da un semplice seduttore, un semplice avventuriero, un semplice truffatore

Di tutto ciò Alessandro Marzo Magno è ben consapevole e intelligentemente invece di continuare a girare intorno al problema, lo affronta in modo del tutto diverso: più che una biografia dell’uomo, il suo saggio è una biografia o una radiografia, del secolo e del mondo in cui visse, quell’Europa del Settecento che Casanova conosce come le sue tasche, le regge come le carceri, i principi e i filosofi come gli attori e le prostitute, l’arte e il gioco, gli agenti segreti e le società segrete

Il risultato è un libro interessantissimo, pieno di curiosità, ricco di dettagli e grazie al quale l’eccezionalità di Casanova balza ancora più in primo piano: il suo tipo umano era in fondo la regola, e però come lui non c’è nessuno

Anche il Settecento, del resto, ha il suo mistero. È il secolo dei Lumi dell’Illuminismo, della Ragione che è la nuova divinità e della Scienza che ne è la fedele ancella, eppure brulica come non mai di stregoni e di ciarlatani, di pozioni magiche e di riti profani, irridente nei confronti di Dio, ma pronto ad adorare il Diavolo È anche il secolo della «Forma», ovvero di un codice comportamentale che non contempla una democratica dissoluzione dell’ordine costituito, e però di una forma che ha perso ormai ogni contenuto, una società che corre verso il disastro senza rendersi conto del baratro che le si sta spalancando sotto i piedi. Nella frase di madame di Longueville riportata da Marzo Magno, «non mi attirano i piaceri innocenti», c’è molto di più di un libertinismo magari d’accatto: ci sono capitali, Parigi, Venezia, per citarne soltanto due, perennemente in maschera, dove ci sono più falsi conti e falsi marchesi che in tutta la nazione di cui sono l’emblema, dove si vive di notte, dove la violenza, fisica, sessuale, è la norma. È a Venezia, del resto, che nasce lo Stato-biscazziere, è Venezia «la città di Venere» cantata dal poeta licenzioso Giorgio Baffo, dove si naviga «nell’oceano della potta», un puttanaio a cielo aperto, riassume Marzo Magno.

La caratteristica più profonda del Settecento è per molti versi la noia, propria di un mondo aristocratico al tramonto e dove la mobilità sociale è bloccata dall’interno. «Quando non combattevano, gli aristocratici non avevano nulla da fare» scrive Marzo Magno e per quanto anche nel Settecento la guerra continui a essere una realtà, non ha la stessa virulenza continentale dei secoli che l’hanno preceduta. Uno dei suoi succedanei è la caccia e ancora nel 1755, durante una battuta in Boemia, il solo imperatore Francesco I sparerà in diciotto giorni all’incirca 10mia colpi di fucile. Quando scoppia la rivoluzione francese, Luigi XVI annota nel suo diario un «niente di nuovo», ma si riferisce alla sua caccia quotidiana

L’altro succedaneo è il gioco d’azzardo: «Sul campo si rischiava di perdere la vita, al tavolo si rischiava di rimetterci tutto. Ciò spiega perché tanti strani personaggi, che ai nostri occhi appaiono poco più che saltimbanchi, avessero grande successo presso i contemporanei di alto lignaggio». La figura dell’avventuriero nasce anche da qui: la carriera militare, come quella religiosa, prevedeva una costo e uno status e chi non ha i crismi della nobiltà e neppure i mezzi economici, figli orfani o figli cadetti, figli bastardi, figli non riconosciuti, avanzi di seminario, si industria per avere il proprio posto al sole: «L’avventuriero doveva fingere: cambiare nome, riscrivere le proprie origini, spacciarsi per qualcun altro». Casanova si autonominerà cavaliere di Seingalt ed è sua la sferzante replica all’imperatore Francesco II che disprezza chi acquista un titolo: «E quelli che lo vendono, sire?».

Si esce dal Casanova di Marzo Magno con un leggero senso di asfissia proprio di una società che gira continuamente su sé stessa, un’ansia frenetica di stordirsi, un senso del vuoto che la attanaglia. In questo Casanova fu diverso: rispetto ai viaggiatori eurocentrici del Grand Tour, si distacca non solo geograficamente, ma emotivamente: viaggia con nobili e poveracci, è derubato e fa l’autostop, lo guida un’idea di esperienza e di conquista, una sorta di insoddisfazione spirituale a rimanere a lungo nello stesso posto. Rispetto ai seduttori o agli ossessi del sesso della sua epoca o di poco posteriori, i de Sade, i Byron, la sua sessualità fu tutt’uno con il resto della sua odissea intellettuale, geografica e professionale, ed è il primo a trattarla in quest’ottica. Nel suo opuscolo Lana caprina, scrive Marzo Magno, «sostiene con sorprendente modernità l’eguaglianza fra i sessi e che le innegabili differenze piscologiche vadano attribuite all’educazione e alla condizione della donna» e conclude dicendo che un certo pensiero maschile «non è mens, ma mentula». Anche chi non sa il latino capisce che cosa voglia dire.

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