Gli ultimi italiani

Gli ultimi italiani

Poco prima che finisca il turno di Fincantieri c’è una finestra temporale in cui Monfalcone è ancora dei monfalconesi. Un momento in cui si riprendono timidi la cittadina in attesa di riconsegnarla poco dopo: l’ora d’aria basta da sola a dire che le altre ventitré sono asfissia. Dopo le diciotto, il sole scende saturando il cielo di rosso e inizia la conta dell’italiano. Gli autoctoni si ritirano in casa o in pochi spazi «loro» e arrivano gli «altri». Il trenta per cento della popolazione di qui (circa settemila persone), ormai, è bengalese (almeno la percentuale censita), quindi di religione musulmana, ha iniziato ad arrivare nel 2005 per costruire le navi da crociera di Fincantieri, un po’ come per le piramidi nell’antico Egitto. Prima erano «pochi e discreti», abitavano una piccola zona periferica e il fenomeno era circoscritto. Ora si sono comprati gran parte della città, hanno scalzato attività storiche, stretto i monfalconesi in poche zone «franche». Hanno aperto diversi patronati e due centri culturali che, secondo le autorità del posto, hanno in realtà adibito a moschee (l’ex pescheria di via Don Fanin e l’ex centro direzionale di via Duca d’Aosta) e nei confronti delle quali il sindaco Anna Cisint ha emesso due ordinanze anti moschea che a breve diventeranno esecutive.

Anche se Rejaul Haq, dell’Associazione islamica di Monfalcone, minimizza: «Si tratta di centri culturali dove vanno anche i bambini, per svolgere varie attività. E comunque noi non abbiamo ricevuto nessuna comunicazione. Noi siamo una realtà anche economica sul territorio e siamo disposti ad adeguarci, ma certo se uno non vuole capire… Comunque, finché non ci sono comunicazioni ufficiali, non c’è nulla di cui parlare. Se arriverà, ne riparleremo. Bon?». Bon… Chiude con l’intercalare che fiorisce più spesso sulle labbra della gente di qui. Ma «di qui» non li «sente» nessuno. Anche se per le strade si vedono solo loro. E i loro negozi. Difficile stabilire di che attività si tratti di preciso: locali quasi sempre privi di insegna con vetrine tappezzate di adesivi e dentro, in vendita, in disordine sparso, dalle zucche alle Barbie, dalle lampadine ai guanti imbottiti, alle cosce di pollo agli ombrelli, alle spezie, agli unguenti e alle valigie. È raro che un italiano entri nei loro negozi, ma ogni tanto loro entrano in quelli degli italiani. «Sì, io ho dei bengalesi come clienti», spiega la proprietaria dell’erboristeria «anche se uno di loro una volta ha visto passare il mio cane nel retro e da allora non ha più messo piede qui dentro» (per i musulmani il cane è considerato un essere impuro).

«Io resto ancora in piedi con i miei clienti storici», spiega il proprietario di una delle boutique più belle della città «ma mi è venuto a mancare il valore aggiunto della passeggiata. Un tempo a Monfalcone, per i negozi di moda, venivano anche da Udine e da Trieste. Ora le strade sono invase da loro, che fanno fare i bisogni in strada ai bambini, girano con i materassi per sistemarsi uno a casa dell’altro e di giorno stanno in giro perché hanno paura dei controlli dei vigili. Ho dovuto mettere dei cartelli in bengalese per pregare i genitori di non far giocare i figli nelle vetrine».

Di media hanno tre o quattro figli a famiglia, una dottoressa del distretto ospedaliero di Monfalcone racconta che a una delle visite pre-parto di una donna alla terza gravidanza il marito le ha detto orgoglioso: «Con le vostre leggi e le nostre pance, vi supereremo in poco tempo». Alla scuola elementare del centro ci sono classi con un solo italiano. Tanto che certi genitori hanno deciso di spostare i figli in altri comuni. E molte famiglie, alla fine, si sono trasferite in pianta stabile.

Laura Saicovich, garante per l’infanzia ed ex maestra della scuola primaria, descrive i bengalesi come una «comunità chiusa che tende ad escluderci. Molte donne non parlano la nostra lingua e, comunque, lasciano parlare gli uomini. Girano velate, negli ultimi anni sempre di più, e le bambine iniziano ad essere velate fin dalle elementari. Credo sia da quando c’è quest’ultimo imam, che evidentemente è più integralista. I bimbi vanno inseriti nelle classi per età, ma magari sono appena arrivati qui e incontrano difficoltà enormi. Poi c’è il tema della mensa, con il cibo preparato apposta e sono divisi in caste. Ci è stato chiesto di spostare di sezione una bambina perché era in classe con due compagni di famiglie inferiori. Insomma, è un’integrazione complessa».

Da quando hanno iniziato a comprare appartamenti e perfino palazzi interi, i prezzi sono precipitati e loro acquistano con ancora più facilità. «A loro concedono mutui al cento per cento e hanno i costi delle utenze agevolati perché mantengono un Isee basso. Magari è una sola famiglia a fare il contratto di affitto, poi però, alla sera, il numero di inquilini aumenta magicamente. Subaffittano a parenti, connazionali, amici ed ecco fatto», spiega il proprietario di uno dei pochi bar sopravvissuti. Non ci sono episodi di criminalità, ma molti, specie i cittadini più anziani, hanno paura ad uscire, soprattutto la sera quando in giro ci sono solo uomini perché le loro donne dopo una cert’ora restano in casa. Barbe tinte con l’henné che non hanno ancora perso il loro artificio, abiti tradizionali o abbigliamento occidentale, intere vie piene di bengalesi che sostano davanti alle loro attività aperte fino a mezzanotte.

E a vederli così c’è chi è pronto a scommettere che la calma sia solo momentanea, apparente: non serve agitarsi per essere pronti.

Leave a comment

Your email address will not be published.