Il premierato conviene. Tra spoils system e spread l’instabilità ci è costata 265 miliardi in dieci anni

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Perché all’Italia conviene dotarsi del premierato? Certamente potere eleggere direttamente il presidente del Consiglio è una motivazione più che valida. E del resto consentire ai cittadini italiani la scelta inequivocabile della persona che andrà a ricoprire il posto più importante di Palazzo Chigi per i successivi cinque anni è stato proprio uno degli obiettivi fissati dal governo Meloni fin dall’insediamento di tredici mesi fa.

Tuttavia, andando oltre l’intenzione meritoria dell’esecutivo di traghettare la Repubblica Italiana verso una democrazia «matura» che eviti giochi e intrighi di palazzo, c’è da sottolineare un altro aspetto non meno rilevante: con l’entrata in vigore di questa riforma costituzionale, i costi complessivi dell’intera macchina dello Stato diminuirebbero sensibilmente in prospettiva.

I dati sui risparmi di cui beneficerebbe la collettività ci vengono forniti da Accademia Politica, un’associazione di studenti dell’Università Bocconi di Milano, in uno studio che era stato condotto nel luglio 2022, all’indomani della caduta di Mario Draghi e dello scioglimento anticipato delle Camere. Innanzitutto bisogna partire da un presupposto numerico: prima di Giorgia Meloni, dal 1946 si sono alternati 67 governi (con 30 diversi premier): quindi, in media, c’è stato un cambio di esecutivo ogni 414 giorni: poco più di un anno. Nessuna legislatura parlamentare ha visto uno stesso governo durare tutti i cinque anni previsti dalla Costituzione. Lo stesso Silvio Berlusconi, benché rimasto ininterrottamente a Palazzo Chigi dal 2001 al 2006, dovette passare attraverso una crisi politica nel 2005, poi risolta con un reincarico da parte di Ciampi e un successivo rimpasto del Consiglio dei ministri.

La continua instabilità politica provoca danni economici da non sottovalutare. Questo succede perché, ogni volta che un governo si dimette e passa la mano al successore, occorre del tempo prima che la macchina ritorni operativa. Come sottolinea Accademia Politica, quando cambiano i 23 ministri, cadono infatti anche le persone chiave che ciascuno di loro aveva scelto: stiamo parlando di una squadra di circa 50 unità, tra capo gabinetto, capo dipartimento, capo legislativo, capo segreteria tecnica, tutti i vice e i funzionari.

Il monumentale passaggio di consegne riguarda nella pratica oltre mille persone. Considerando che gli incarichi raramente coincidono con competenze specifiche, le dinamiche che si vengono a creare non possono fare altro che creare una «banale» conseguenza: tutto quello che non è considerato ordinaria amministrazione si paralizza. Si bloccano quindi appalti, decreti attuativi, leggi e accordi in corso. Il rischio di sprecare denaro pubblico diventa piuttosto concreto.

Poi, in tutto questo balletto, c’è da sottolineare l’assurdità di questo «spoil system» dentro i dicasteri: se è vero che i componenti sopracitati dello staff del ministro precedente vengono sostituiti, rimangono invece in carica fino alla scadenza dell’incarico i direttori generali. Che cosa significa tutto questo? Per esempio, un dg nominato da un ministro di centrosinistra potrebbe tranquillamente remare contro il nuovo ministro scelto dal centrodestra e viceversa. E questo può provocare ulteriori impedimenti.

Risulta quindi impossibile non rendersi conto di come la gracilità degli assetti istituzionali abbia ritardato la modernizzazione del nostro Paese in questi decenni. Se un governo riesce a prendere dimestichezza del corpaccione burocratico soltanto mesi dopo essere entrato ufficialmente in carica, per poi cadere in poco tempo, la propria dimensione politica non potrà che essere di basso profilo: più attenta all’ordinaria amministrazione e incapace di attuare una programmazione di ampio respiro. Niente riforme strutturali, per le quali i risultati maggiori si vedono dopo vari anni. Solo provvedimenti spot con bonus immediati a categorie specifiche per ottenerne il consenso da lì a breve in vista di elezioni imminenti.

Esistono poi le problematiche legate allo spread, vero termometro della fiducia nell’economia italiana: tanto più è alto, tanto più la nostra economia viene considerata rischiosa. È innegabile il fatto che il differenziale sia naturalmente influenzato dall’instabilità politica e dalla litigiosità di un governo. Negli ultimi anni gli italiani si sono abituati a vedere lo spread tra i rendimenti dei titoli di Stato italiani e tedeschi divaricarsi pericolosamente proprio davanti a prospettive di ingovernabilità del Paese. Del resto, dopo la caduta dell’ultimo governo Berlusconi nel 2011, nei successivi dieci anni si sono insediati ben sette nuovi esecutivi, invece dei soli due previsti nel medesimo arco temporale se fosse già stata approvata la riforma del premierato: Monti, Letta, Renzi, Gentiloni, Conte (due volte) e Draghi. E nessuno tra loro era stato scelto dai cittadini. Anzi, non si erano proprio candidati a premier. Nello stesso periodo in esame si sono poi succeduti ben dieci ministri degli Esteri, figure chiave nei rapporti diplomatici con gli altri partner europei.

L’economista Marco Fortis aveva fatto un calcolo: in questo decennio di pura instabilità governativa sono stati pagati 265 miliardi di euro di interessi sui titoli di Stato che si sarebbero potuti evitare con una classe politica affidabile e stabile.

In sintesi: il premierato non solo contribuisce ad allargare la partecipazione democratica per la scelta dei futuri amministratori nazionali, ma consente anche di risparmiare notevoli risorse economiche, tra progettazione a lungo termine e credibilità in ambito internazionale. Coniugando solidità, autorevolezza e aspettative, dunque, si potrà vincere la sfida del cambiamento. Contro i tifosi dell’immobilismo.

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