Cronache dall’abisso di Norimberga

Cronache dall'abisso di Norimberga

Novembre 1945. Norimberga è un cumulo di macerie, tra le strade iniziano ad aggirarsi centinaia di giornalisti. Qualcuno dall’aria attenta, qualcuno dall’aria stranita. C’è persino un cronista cinese, Xiao Qian, che ha seguito l’avanzata delle armate inglesi nella Germania occupata. Per qualche strano motivo trova che la città assomigli a Pechino, forse per le grandi mura. Forse perché gli ispira calma. Dovunque vada, in mezzo alle rovine, incappa nei suoi colleghi. Sono tutti lì per assistere al processo che dovrebbe schiacciare sotto il peso della giustizia i crimini dei nazisti.

Ma quale giustizia? Non esiste nemmeno un quadro normativo chiaro. Churchill si sarebbe accontentato di una corte marziale, gli statunitensi invece quel quadro normativo vogliono inventarlo, costi quel che costi, errori compresi. I giornalisti vogliono semplicemente esserci, raccontare, essere gli occhi del mondo. Tangenzialmente vogliono anche mangiare e dormire ed ospitarli in una città distrutta è tutt’altro che facile. Sotto la guida dell’onnipresente e quasi onnipotente logistica statunitense si cercò il posto giusto per creare un «press camp» in grado di far fronte all’assalto. Vista la città devastata dalle bombe si finì per scegliere un castello sito a Stein.

Era stato confiscato ai Faber-Castell, la famosa famiglia di produttori di matite. Dentro la grande villa costruita come fosse una fortezza medievale vennero messi letti ovunque, in certe stanze erano stipati sino a dieci cronisti. E così per mesi e mesi il processo più importante e noto (non sicuramente il più giusto) del Novecento finì anche per riunire la crème de la crème del giornalismo e della letteratura anni Quaranta. Tanto per fare un elenco con solo i nomi di primissimo piano: Erika Mann, Erich Kästner, John Dos Passos, il futuro premio Lenin Ilja Ehrenburg, Elsa Triolet, Rebecca West e Martha Gellhorn, il già citato Xiao Qian che sarebbe diventato il presidente dell’Unione degli scrittori cinesi. E poi anche giovani giornalisti e scrittori la cui fama sarebbe esplosa in seguito, le star della televisione americana Walter Cronkite e Walter Lippmann, per non parlare di Willy Brandt, il futuro cancelliere tedesco, o di pezzi da novanta della letteratura come Gregor Von Rezzori o Joseph Kessel. A tutt’oggi è assai probabile che una simile riunione di penne, provenienti da tutto il mondo, non sia mai più avvenuta.

Un enorme quantitativo di talento letterario, ma anche di nevrosi e di idiosincrasie, riunito in un microcosmo per giudicare l’ora zero di un mondo nuovo, quello che avrebbe dovuto essere un inusitato punto di equilibrio tra diritto e vendetta contro i carnefici. A raccontare questo microcosmo incredibile ha provato ora Uwe Neumahr in Il castello degli scrittori. Norimberga 1946 cronache dall’abisso (Marsilio, pagg. 302, euro 22). La letteratura incontrò in aula il male assoluto e i giudici, dentro il castello dormitorio incontrò se stessa e accadde di tutto. I ventuno grandi imputati (tra cui Göring) convocati in aula si trovarono ad affrontare la stampa. La temevano e scoprirono che poteva essere anche molto cinica. Scrisse Albert Speer nelle sue Memorie del Terzo Reich: «Rimasi scioccato quando i giornalisti cominciarono a fare scommesse sulle nostre condanne, e il punteggio di una scommessa su una sentenza di impiccagione raggiunse, in un caso, anche noi». Ci fu anche chi non riuscì a reggere allo stress del processo. Secondo molti colleghi il futuro drammaturgo Wolfgang Hildesheimer (1916-1991) avrebbe costruito la sua visione apocalittica del mondo proprio a Norimberga. Janet Flanner, una vera pioniera del giornalismo americano, nota a tutti per il suo stile arguto e pungente, a Norimberga si inceppò. Disse di essere stata semplicemente annichilita dalla dimensione dei crimini che si trovò davanti. Erich Kästner (che vincerà un premio Büchner) ammise di non riuscire a scrivere «un articolo coerente su questa impensabile, infernale follia».

Intanto al press camp andava in scena anche uno scontro di civiltà e una costante guerra tra cacciatori di scoop. I giornalisti tedeschi furono tenuti fuori dal press camp e si lamentavano dei loro articoli sottoposti a censura (Willy Brandt faceva eccezione perché usava un passaporto norvegese). I cronisti russi, controllatissimi dalla madre patria, cercavano di ritagliarsi con scarso successo qualche spazio di libertà; il romanzo di Boris Polevoj che avrebbe fatto da modello per un’opera lirica di Sergej Prokof’ev, La storia di un vero uomo, venne scritto nel press camp. Gli americani reagirono diversamente all’esperimento sociale del castello. Per usare le parole di Wolfgang Hildesheimer: «Bevono come fossero pagati per farlo e non è raro che qualcuno venga rimandato indietro perché arriva al delirium tremens. Per il resto sono puritani, amichevoli e ignoranti». Va detto però che tra cronache gonfiate e amorazzi (Rebecca West sedusse uno dei giudici), dal press camp uscirono anche le valutazioni più interessanti su tutto quello che non funzionava nel processo. Si voleva la creazione di un faro morale che illuminasse l’abominio del nazismo. La profondità dell’abominio era enorme, la luce del faro molto oscillante. Ma in molti lo scrissero. Da cronisti veri: umani fallibili in cerca di una disperata onestà.

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