Per quanto siano passati ormai due secoli, Napoleone continua a essere visto dagli inglesi come una via di mezzo fra un bambino scostumato e un serial killer. L’inglese Ridley Scott, che è un regista di tutto rispetto, non fa eccezione in materia e nelle due ore e mezzo del film che gli ha dedicato – Napoleon – affida alla maschera un po’ truce di Joaquin Phoenix, eternamente con la feluca sulla testa, il compito di riassumere un uomo e un’epoca nella brutale contabilità dei cadaveri sparsi sui campi di battaglia del Vecchio continente. Quando non c’è il coté-massacro, l’unico altro motivo di interesse è quello sessuale-sentimentale, altro topos classico della sensibilità d’oltremanica, dove la pruderie non è altro che il vizio travestito da virtù. Così Napoleone è un po’ Nerone, infantile anche se senza cetra, e Giuseppina è una via di mezzo fra Agrippina e Poppea, sempre e comunque Messalina.
Sontuoso polpettone in costume, non faremo al regista il torto di chiedere al suo film una verosimiglianza storica: da bravi lettori di Dumas siamo consapevoli che la storia può essere violentata in nome dell’arte, a patto però di farle fare dei figli belli, parto di cui qui, purtroppo, non c’è traccia. Sorvolando sul fatto che Napoleone firma documenti, divorzio o abdicazione che sia, redatti in inglese, ci accontenteremo di osservare che all’assedio di Tolone, che gli vale la promozione da capitano a generale, Napoleone ha venticinque anni e Phoenix che lo impersona potrebbe essere suo padre…
Quello degli attori costretti a calarsi nella realtà del tempo storico, è del resto un altro degli elementi deboli del film. Robespierre è un panzone qualsiasi, Talleyrand non ha nulla né del principe né del prelato che fu, Fouché assomiglia a un bottegaio… L’unico che sembra stare a proprio agio nel ruolo è Rupert Everett, nei panni del duca di Wellington, perfetto concentrato di albionica albagia. Il fatto che Everett sia inglese non è naturalmente secondario: essere così non gli costa insomma alcuno sforzo…
La guerra, dunque, è la dominante del film di Ridley Scott: scene di massa, cariche di cavalleria, sventramenti e sbudellamenti riempiono lo schermo, il terreno ghiacciato di Austerlitz, dove ancora brilla il sole di Napoleone, è filmato con partecipe orrore.
Chateaubriand definì Napoleone «il più potente soffio di vita che animò l’argilla umana». Aveva ragione, perché nel quarto di secolo che lo vide protagonista, il «piccolo corso» rivoluzionò il suo tempo, e non solo militarmente parlando. Lo fece in un’epoca che accelerava, comprimeva e bruciava vite senza nemmeno dar loro il tempo di un sospiro. A trent’anni farà coincidere la fine della Rivoluzione con il colpo di Stato che lo incorona Primo console. A quarantasei, ha già perso tutto, l’esilio come tomba, un morto che cammina nel nulla di un’isola fatta di niente. Se «la rivoluzione in Francia non ha amato la vecchiaia», secondo la felice formula dello storico François Furet, bisognerà anche dire che «è stata la Rivoluzione ad aver portato la vecchiaia nel mondo», come ben aveva diagnosticato la scrittrice George Sand: visi febbrili e fisici usurati, rictus, nevrosi, senilità anzitempo di chi si trovava a giocare con le vite altrui quando ancora non sapeva bene come comportarsi con la propria. Anche di tutto ciò Napoleone è parte in causa, nonché primo attore.
Nel film di una tale atmosfera febbrile non c’è traccia, così come manca quell’insieme di familismo, così tipico del bonapartismo da un alto, di nuova aristocrazia nata dal basso dall’altro, che modellò nel bene come nel male la Francia dell’epoca. Volendo comprimere l’intero arco di una vita, breve come durata, ma intensissimo quanto ad avvenimenti, emozioni, decisioni, Ridley Scott rischia spesso e volentieri la facile scorciatoia, se non la faciloneria. Ci dà la caricatura, ma gli sfugge l’essenza.