Java Road è la punta più settentrionale dell’isola di Hong Kong. È la via dei negozi di pompe funebri, e del ristorante Fung Shing. Il nome significa «Città della Fenice», ma per Adrian Gyle, suo assiduo frequentatore, è solo un abbozzo di rinascita. È proprio in Java Road che Lawrence Osborne ha deciso di far ruotare il destino del protagonista del suo nuovo romanzo (Adelphi, pagg. 210, euro 19). Gyle è un inglese, ha studiato a Cambridge, di professione è giornalista ma preferisce definirsi «un cronista, termine più umile che descrive meglio ciò che fa: riportare quel che vede». E quel che vede lì a Hong Kong, dove è arrivato in seguito all’addio britannico del ’97, non è rassicurante: sono i giorni delle proteste degli studenti contro il regime cinese, sono notti calde di scontri, gas lacrimogeni, ragazzi feriti, bande filocinesi che girano per le strade e fanno paura.
Nel mirino dei picchiatori ci sono i manifestanti ma anche gli stranieri, sospettati di essere spie della Cia. Perciò Gyle, anche se vive a Hong Kong da vent’anni, percepisce ogni giorno di più, e specialmente mentre è seduto al tavolo del suo ristorante preferito gustando tè e ravioli guan tang jiao in brodo, di essere ancora e sempre un gwai lo, un uomo fantasma. Bianco, occidentale, malvisto. E, allo stesso tempo, invisibile: perché, nonostante cerchi da anni di costruirsi una reputazione attraverso il suo lavoro, non è che un giornalista cinquantenne in declino, sia a causa dei social che rubano terreno all’informazione tradizionale sia per la sua stessa mediocrità. Insomma, vorrebbe passare per un grande inviato e scrittore, ma non lo è, e sa di non esserlo.
C’è una vena autoironica nel ritratto di Gyle: anche Osborne è un inglese, ha studiato a Cambridge e vive da decenni in Oriente, nel suo caso a Bangkok (a cui ha dedicato anche l’omonimo libro); certo, a differenza del suo protagonista, con esiti di scrittura tutt’altro che fallimentari… Con Java Road, Osborne torna alle sue geografie abituali, dopo la trasferta in Marocco di Nella polvere. E lo fa con un noir «alla Osborne»: in cui il mistero c’è ma, più che nel cadavere e nei sospettati (che pure ci sono), risiede nei rapporti umani, relazioni tessute di amicizia e di potere, di giochi di forza più o meno espliciti, di ruoli dati per assodati e che, forse, si possono ribaltare… Ma la novità di Java Road è nel mostrare il lato più «politico» di Osborne; già Nella polvere ci aveva trasportato in un mondo politicamente corretto e radical chic, ma qui lo scrittore inglese si cala nell’attualità – siamo fra il 2019 e il 2020 – delle manifestazioni di piazza di Hong Kong, che per mesi hanno rappresentato una forma di ribellione concreta contro Pechino. E, sotto la superficie di una società apparentemente immobile, Osborne segue le incrinature: Gyle infatti è amico dai tempi dell’università di Jimmy Tang, un miliardario senza scrupoli che gli permette di entrare nel mondo dei super ricchi della città e di tastarne con mano l’ambivalenza: «In pubblico molti criticavano le dimostrazioni; in privato le appoggiavano, sottovoce. Si muovevano in un paradosso.
Perché in termini pratici cosa devi fare precisamente quando scopri che il tuo piacevole stile di vita non poggia sulle fondamenta che credevi ma su qualcosa che non hai mai visto? (…) Ora, per ironia della sorte il Partito comunista era il segreto della loro serenità capitalistica». Ed ecco perché la famiglia di Tang pretende che lui dimostri fedeltà al Partito e alla causa della gloria nazionale. Ecco perché la relazione clandestina di Jimmy con una studentessa di 23 anni, Rebecca To, ricca quanto lui ma apertamente coinvolta nelle proteste, è doppiamente pericolosa. Quando poi i due amanti finiscono paparazzati su tutti i giornali e, dopo pochi giorni, Rebecca scompare, il mistero sembra servito appositamente per risvegliare il cronista dormiente in Adrian Gyle. Il fatto è che la democrazia piace, ma poi… «Il potere assoluto era il potere assoluto e la sua stabilità era più preziosa della libertà di parola e di una forza di polizia benevola e disarmata. Essere incatenati allo Stato non era il peggio che si potesse immaginare, finché ti dava cibo e sicurezza – come di solito accadeva».
E se Jimmy Tang, dall’alto dei suoi miliardi e con l’arroganza di chi sa di passarla sempre liscia, può permettersi di notare che «anche gli schiavi finiscono per amare le loro gabbie», per il campagnolo Gyle suona tutta un’altra sinfonia. Spinto da un desiderio di giustizia – o, forse, di bieca rivalsa sull’amico – si mette a indagare sulla scomparsa di Rebecca, fino a mettere in pericolo la propria stessa vita. Intorno, Hong Kong non lo aiuta. Pare tutt’altro che disposta a perdonargli la sua estraneità e lo avvolge sempre più nelle spirali languide dell’angoscia che la attraversa in quei giorni bui: «L’atmosfera della città aveva qualcosa di anestetico. Fuori c’erano ancora trentasette gradi. L’aria inacidita dall’odio, l’urlo delle sirene che si moltiplicava in lontananza. Al di là della strada, vidi le facce dietro i vetri scrutare timidamente lo spopolamento dei marciapiedi. A quanto ricordavo, era la prima volta in tanti anni che i fili del bucato davanti alle finestre erano nudi, come rami di alberi spogliati dal passaggio di un tornado. Le voci si infilavano nei canaloni deserti in mezzo ai grattacieli e a grande distanza le sirene echeggiavano senza sosta, come lacerando un tremendo vuoto, e tutt’intorno nell’etere si increspava un’elettricità: il gregge era spaventato, i lupi erano in arrivo. Non si vedevano ancora, ma il loro odore terribile e alieno era nel vento». Le fenici, intrappolate, faticano a volare via dalle loro ceneri