Daniela Dröscher scrive di cose che non ha ancora capito, perchè se le avesse già capite non avrebbe bisogno di scrivere. La sua è una “micro-sociologia”, per capire in che modo la società agisce sul singolo. Una vera indagine, una vera storia
Dopo anni di ubriacatura d’amore per Emmanuel Carrère, è cominciata una specie di resistenza all’autofiction, espressa come stanchezza a volte, o più spesso come svalutazione critica. E cioè: parlare dei fatti propri è meno degno, meno letterario, e comunque che palle, sono stufi anche i lettori. Questa vibe dalla critica è arrivata fino alla mia libraia di quartiere, che qualche mese fa era entusiasta di un certo libro italiano autobiografico, e adesso mi dice: “Però, basta questo io io io, quanto ego”. “Ah”, ho detto, “ma qual è l’ultimo libro di trama che ti è piaciuto? Magari con una bella terza persona onnisciente, in cui tutto si tiene e tutto si spiega?”. Ha citato A quattro zampe di Miranda July (Feltrinelli), e Resoconto di Rachel Cusk (Einaudi), che però sono entrambi autofiction, nel senso che nulla si tiene se non grazie alla voce della narratrice. “Forse il problema sono i libri italiani”, ha detto lei allora, che è la conclusione passepartout per qualsiasi discordia letteraria.
Il punto di svolta è stato forse la vittoria del premio Nobel di Annie Ernaux (2022) o la trilogia di Rachel Cusk. A un certo punto, dopo questi eventi, il racconto di sé aveva stufato. L’autofiction in definitiva è diventato un genere stanco da quando hanno cominciato a praticarlo con successo le scrittrici. Daniela Dröscher è la scrittrice che più è stata paragonata a Annie Ernaux. E’ tedesca, il suo ultimo libro è Bugie su mia madre (L’orma Editore). E’ venuta in Italia per un incontro di anteprima del Letterature Festival di Roma, curato da Simona Cives. Ha detto che lei scrive di cose che non ha ancora capito, se le avesse già capite non avrebbe bisogno di scrivere. All’apparenza è una frase che dicono molti scrittori, ma in Dröscher c’è una linearità tedesca e lei non intende la frase metaforicamente: in Bugie su mia madre, al racconto delle vicende avvenute durante l’infanzia si alternano pagine singole di domande, ipotesi, spiegazioni con note biografiche pure. Dröscher pratica l’autofiction come “micro-sociologia”, per capire in che modo la società agisce sul singolo. Parlando degli anni Ottanta in cui è ambientato il suo romanzo (uno dei quattro anni in cui si svolge la vicenda è l’86 del disastro di Chernobyl), le viene naturale mettere in connessione la minaccia nucleare che si avvertiva in quegli anni all’espressione “famiglia nucleare”, che suscita anch’essa un senso di minaccia.
L’equivoco sull’autofiction nasce dal fatto che, in un’epoca di iperindividualizzazione, ci si dimentica che la conoscenza di sé “non è mai stata concepita come fine a sé stessa”, ma è un imperativo sociale, spiega. La massima “conosci te stesso”, poi, nel tempio di Apollo a Delfi, era rivolta soltanto agli uomini. E del romanzo di formazione del Settecento non può esistere una versione femminile, né allora né oggi. L’eroina non può realizzarsi in una “educazione compiuta e armoniosa”: sarà sempre in contrasto con la società perché la società è patriarcale. Proprio per le donne conoscere sé stesse è di importanza vitale, e proprio per le donne appare ancora proibito. In Bugie su mia madre, un libro che in Germania ha avuto un grande successo di pubblico, Daniela Dröscher racconta di una madre che per il marito era sempre troppo grassa, quindi troppo presente, e per la figlia troppo sfuggente, perché sfinita dal lavoro di cura. Eppure, il libro non corre mai il rischio di essere “a tema”. Oltre a essere una vera indagine, è anche una vera storia, in cui i personaggi agiscono in modo inspiegabile sul momento, e in cui si ritrova, alla fine, un pezzo della propria vita.