Derrick Rose si è ritirato. Chissà cosa sarebbe diventato se…

Il più giovane Mvp della storia della Nba ha annunciato il ritiro. Era riuscito a illudere Chicago che con lui in campo i Bulls potessero tornare a vincere. Poi gli infortuni a ripetizione e la fine del sogno

Ha rotto il silenzio via social – dove il cestista è parco di post: l’ultimo prima di ieri risaliva al suo matrimonio un anno fa. Poi un video premonitore: Derrick Rose sul divano di casa, fra le mani una rosa rossa, sguardo perso fuori dalla finestra. Scrive un diario. Si alza, sale le scale. L’inquadratura su una scarpa, un libro di George Orwell e un altro dal titolo “Message”. Lui si accomoda alla scrivania, davanti a sé una scacchiera. Sugli scaffali, foto ricordo e orsetto Pooh (il suo primo soprannome). Stop. Resta una didascalia: “Rinascita”, e la data di oggi. 26 settembre 2024. Poche ore dopo, stesso set, il campione è vestito da uomo d’affari che legge il giornale del mattino. “Grazie, mio primo amore”, recita il paginone. “Hai creduto in me tra i miei alti e bassi. Hai trasformato il parquet nel mio santuario. Mi hai portato verso luoghi e culture che un ragazzino di Chicago mai avrebbe immaginato. Mi hai offerto saggezza, sulla vita oltre lo sport. Sei stato dalla mia parte quando il resto del mondo mi voltava le spalle. Mi hai fatto regalo del nostro tempo insieme. Mi hai detto che è l’ora di dirsi addio, rassicurandomi che non mi lascerai mai. Tuo per sempre, Derrick Rose”.

Così, a quasi 36 anni, si ritira uno dei più grandi playmaker della moderna Nba. E forse il più grande what if – quella folta categoria di talenti incompiuti – in assoluto. Chissà cosa sarebbe diventato Derrick Rose se, durante i playoff 2012, in quell’affondo a canestro non gli fosse saltato il legamento crociato del ginocchio sinistro. Chissà cosa sarebbe diventato se appena un anno più tardi non l’avesse tradito il menisco destro. Chissà senza quel vortice di interventi chirurgici, stagioni saltate per intero, che più volte l’avevano portato sull’orlo del ritiro anticipato. Già, chissà. Possiamo però raccontare cosa Derrick Rose è stato davvero. Un fenomeno di precocità, il più giovane Mvp – nemmeno 23enne – della storia Nba. Un signore del gioco, inarrestabile in penetrazione e martellante in zona assist. L’illusione di una città intera: prima e dopo di lui, i Chicago Bulls non hanno mai neppure accarezzato lo strapotere dell’èra Jordan. Insieme a Rose, cresciuto con le imprese del 23 in tv, avevano posto le basi per farlo. Due regular season da schiacciasassi, 75 per cento di vittorie. Una sconfitta in finale di Conference. E quel dannato infortunio, che tutto spazzò via.

Da lì in poi è stato un lungo girovagare. Due volte New York, Cleveland, Minneapolis, Detroit e infine Memphis – dove Derrick aveva iniziato ai tempi del college. Qualche sprazzo di antico splendore, il fisico che lo perseguita, l’intelligenza cestistica di reinventarsi – più tiratore, più difensore – per non sovraccaricarlo. Ma ormai è un altro. Un jolly, un gregario. Tom Thibodeau, il suo allenatore ai tempi di Chicago, l’ha rivoluto con sé fino all’ultimo. Poi ha scoperto Jalen Brunson, che gli fa rivedere i colpi del suo predecessore. “Attorno al coach c’è una narrativa che si fa largo sin da quando Derrick si fece male”, spiega la star dei Knicks. “E cioè che lui, limitando le rotazioni, spremerebbe troppo i suoi giocatori: solo vincendo possiamo dimostrare che non è così”. È d’accordo anche Rose, che mai ha portato rancore. “Anzi. Al mio matrimonio Thibs mi ha mandato uno champagne d’annata”. 2010-12, alla salute dei Bulls. E pazienza se a vincere saranno altri.

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