Introdurre i dazi è facile, toglierli è difficilissimo. E a frenare la Casa Bianca non sono gli oppositori, ma i mercati e la fronda libertaria del partito repubblicano
Migliaia di persone, nel 1999, scesero in piazza contro la globalizzazione, nella speranza di impedire lo svolgimento del vertice dell’Organizzazione mondiale del commercio (Omc/Wto) a Seattle e bloccare in tal modo la conclusione di nuovi accordi di libero scambio. All’epoca Donald Trump non era in strada coi manifestanti: stava divorziando dalla seconda moglie, l’attrice Marla Maples, e stava comprando il primo campo da golf (oggi ne ha diciassette); politicamente era schierato con il Reform Party di Ross Perot, da cui sperava di ottenere la nomination per le elezioni presidenziali dell’anno successivo.
Suona curioso, ma forse non troppo, che sia proprio Trump, ventisei anni dopo, a realizzare il programma dei movimenti no-global, non solo nei suoi obiettivi immediati, ma in quelli più ambiziosi e di lungo termine. Le picconate al Wto, per la verità, cominciarono già durante il suo primo mandato, con l’imposizione di dazi arbitrari e la progressiva paralisi degli organismi decisionali dell’Organizzazione. L’Amministrazione Biden non fece niente per cambiare strada, anzi, tenne un atteggiamento ancora più duro, ignorando le decisioni del Wto (tra l’altro a difesa proprio dei dazi trumpiani) e stoppando la nomina dei giudici mancanti nell’organo d’appello. Ma l’annuncio si Trump, avantieri, dei dazi “reciproci” rappresenta un passo senza precedenti, le cui conseguenze vanno molto al di là del mero impatto economico delle nuove tariffe perché minano alla base l’ordine commerciale internazionale.
La differenza è, anzitutto, quantitativa: per trovare un termine di paragone bisogna tornare addirittura al 1930, quando lo Smoot-Hawley Act alzò al 50 per cento le tariffe sui beni importati negli Stati Uniti e contribuì in tal modo alla Grande Depressione. Fino a poche settimane fa, il livello medio di protezione daziaria di Washington si aggirava attorno al 2,4 per cento. Poi gli ordini esecutivi di Trump lo hanno rapidamente elevato all’8,4 per cento e adesso potrebbe salire a una quota tra il 20 e il 30 per cento. Introdurre i dazi è facile, toglierli è difficilissimo: nel secolo scorso, dopo la Grande Depressione, ci vollero più di vent’anni per tornare al livello degli anni Venti.
Significativamente, ora a frenare la Casa Bianca non sono gli oppositori, ma le due forze contro cui i no-global si battevano. Sul piano economico, a Wall Street i mercati stanno lanciando un segnale d’allarme che difficilmente può essere ignorato. L’indice S&P500 è crollato del 3,4 per cento, il Nasdaq 100 del 4,4 per cento e il dollaro del 4,6 per cento (l’arretramento più grande in un solo giorno dal 2015). Il rischio recessione si avvicina.
Sul piano politico, le parole più dure non arrivano dagli attoniti democratici ma dal senatore Rand Paul, esponente della fronda libertaria del partito repubblicano. Proprio mentre Trump annunciava i dazi reciproci, Paul riusciva a far approvare dal senato, con un margine di 51-48, un disegno di legge proposto assieme al democratico Tim Kaine per abbattere i dazi contro il Canada. Per intervenire con un ordine esecutivo, Trump si è avvalso di una legge del 1977 che si applica quando è a repentaglio la sicurezza nazionale. Il provvedimento votato dal Senato stabilisce che il Canada non costituisce una minaccia per gli Stati Uniti: “non siamo in guerra con il Canada. Il Canada è un alleato che compra i nostri beni in proporzione maggiore di quasi qualunque altro paese al mondo”. Assieme a Paul, lo hanno sostenuto i repubblicani Mitch McConnell, Susan Collins e Lisa Murkowski.
Ora il boccino si sposta alla Camera, dove il partito di Trump ha una maggioranza più ampia. Paul ha anche avvertito che gli effetti politici dei dazi potrebbero essere altrettanto rilevanti di quelli economici. “Quando McKinley introdusse i suoi dazi nel 1890 – ha attaccato il senatore – [i repubblicani] persero la metà dei seggi nelle elezioni successive. Quando Smoot e Hawley ottennero l’approvazione delle loro tariffe all’inizio degli anni Trenta, perdemmo sia la Camera sia il Senato per i successivi 60 anni. Quindi i dazi non sono solo sbagliati economicamente, lo sono anche politicamente”. Resta una domanda: è più imbarazzante per Trump trovarsi a realizzare il programma degli ex giovani di Seattle o viceversa?