Ancora giù tutte le borse, Milano brucia 50 miliardi. Governo fiducioso, mercati preoccupati

Per Meloni l’impatto negativo può essere affrontato, ma la turbolenza si fa sentire a Piazza Affari, che chiude a -6,5 per cento. Con un’ondata di vendite fuori misura (ancora una volta) su tutti i listini europei

Se il maggior indice della Borsa italiana, il Ftse Mib, ha superato, durante la seduta di oggi, il calo raggiunto nel giorno dell’attacco alle Torri Gemelle (-7,5 per cento), vuol dire che la preoccupazione degli investitori per gli effetti della guerra commerciale sull’Italia e sull’Europa è davvero alta, soprattutto ora che la Cina ha replicato ai dazi di Trump con misure analoghe.

Tale preoccupazione si è manifestata con un’ondata di vendite fuori misura, ancora una volta, su tutti i listini europei (perdite comprese tra il 4 e il 6 per cento), su quelli asiatici nella notte tra giovedì e venerdì (Tokyo – 2,75 per cento e Hong Kong -1,5 per cento) e di nuovo a Wall Street (Nasdaq e S&P500 a – 3,5 per cento a metà seduta di oggi). Ma su Piazza Affari ha avuto un effetto devastante con quasi 50 miliardi di capitalizzazione bruciati (chiusura finale a -6,5 per cento) nel giorno in cui era atteso il verdetto dell’agenzia di rating Fitch su merito di credito e outlook del paese.

Dopo Fitch seguiranno i giudizi di S&P Global Ratings l’11 aprile, di Dbrs il 18 e di Scope Ratings e Moody’s il 23 maggio. Una tornata di valutazioni che mette sotto pressione il governo Meloni, che finora è riuscito a tenere sotto controllo il debito pubblico, ma che, a causa delle politiche protezioniste di Trump, si trova di fronte alla possibilità di una recessione che avrebbe un impatto sui conti pubblici. Un eventuale calo del pil per effetto delle minori esportazioni oltreoceano (oltre mezzo punto in meno nel triennio 2025-2027 secondo le previsioni della Banca d’Italia) e un maggior impegno di spesa pubblica per la difesa (come richiede lo stesso presidente Trump ai paesi Nato) può rappresentare un mix micidiale da tenere a bada per un paese ad alto debito. Va detto che se sul mercato azionario si registra un terremoto, su quello dei titoli di stato la tensione è, per adesso, contenuta, come dimostra il rialzo lieve dello spread sovrano a 118 punti base accompagnato, peraltro, da una discesa dei rendimenti dei Btp e non da un aumento come avviene nei momenti di turbolenza, segno che la fiducia degli investitori resiste.

“Sono preoccupata, ma bisogna trattare con gli Stati Uniti”, ha ribadito la premier Giorgia Meloni in Consiglio dei ministri. La premier vuole evitare ritorsioni pesanti perché “è importante non amplificare ulteriormente l’impatto reale che la decisione americana può avere”. Per Meloni l’impatto negativo può essere affrontato, soprattutto se non si scatena una situazione di “panico e aspettative negative” tra consumatori e imprese. E soprattutto se l’Europa, come accaduto dop altre crisi come il Covid e l’invasione dell’Ucraina, decide di affrontare problemi irrisolti da tempo come “le regole ideologiche e non condivisibili del Green Deal, il rafforzamento della competitività delle nostre imprese, all’accelerazione del mercato unico e alla necessità di una maggiore semplificazione, visto che siamo soffocati dalle regole”. L’obiettivo del governo, quindi, oltre a valutare l’impatto dei dazi americani con uno specifico gruppo di lavoro formato dai due vicepremier, il ministro dell’Economia, delle Imprese, dell’Agricoltura e delle Politiche europee, è quello di rivedere le norme che “rappresentato di fatto dei dazi che l’Unione europea si è autoimposta”.

Intanto, l’allarme sui mercati finanziari continua a suonare a livello globale. Secondo Goldman Sachs, la combinazione di un’inflazione più elevata e di una crescita più lenta complica la capacità di fornire una risposta tempestiva anche da parte delle autorità monetarie, in particolar modo della Fed. Quando, infatti, c’è stagflazione il dilemma è se alzare o ridurre i tassi di interesse. Ma c’è anche un altro aspetto, messo in evidenza da un’analisi di Moneyfarm: i dazi sono qua per rimanere e non uno strumento di negoziazione, come in un primo momento si pensava, anche se alcuni ritengono che alcuni ritocchi saranno possibili nei rapporti tra Usa con singoli paesi. “Non riteniamo – dice Moneyfram – che l’intento dell’amministrazione Trump sia provocare una recessione, ma appare chiaro come sia disposta a tollerare una crescita più debole pur di perseguire i propri obiettivi di lungo termine. E l’obiettivo dichiarato è rilanciare la manifattura sul suolo statunitense”. Insomma, il mondo si trova di fronte alla trasposizione pratica dello slogan “America First”, che prevede il ritorno della produzione manifatturiera negli Stati Uniti sempre che le imprese lo ritengano economicamente sostenibile.

“Nel frattempo – conclude l’analisi – tutto lascia intendere che i dazi continueranno a rappresentare uno strumento centrale della politica economica americana ancora per molto”. Se è questa la consapevolezza che si sta diffondendo sui mercati finanziari, anche le turbolenze sono destinate a restare con i dazi.

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