È stato uno scacchista a trecentosessanta gradi capace di padroneggiare ogni aspetto del gioco, di cui incarnava i più alti valori. Un gentiluomo, forse fra i meno noti, ma di certo uno dal quale trarre molti esempi
Lascia questo mondo un vero re, Boris Spassky. Colui che ha portato sulla sua testa la pesantissima corona del campione del mondo, un peso gravoso che lo ha afflitto dal 1969 al 1972, quando, nel “match del secolo” di Reykjavik l’ha ceduta a Bobby Fischer. La fugace stella americana brillò con così tanta luminosità da oscurarlo per troppo tempo. Colpevole solo di aver incontrato una leggenda nel momento del suo massimo splendore, il ricordo di Spassky (come viceversa per Fischer) è stato spesso schiacciato dalla dicotomia fra mondo occidentale e mondo sovietico per la quale il campione russo era stato chiamato a difendere la causa del suo paese. La più grande responsabilità per il re era lasciare a tutti i costi la corona a Mosca, dove risiedeva da decenni. Si rivelò una sfida impossibile. Ma Spassky è stato molto di più di un mero sconfitto: uno scacchista a trecentosessanta gradi capace di padroneggiare ogni aspetto del gioco, di cui incarnava i più alti valori.
Se Fischer amava nella competizione distruggere l’ego dell’avversario, per il russo il più grande piacere era confrontarsi ad armi pari con avversari di grande valore. Conobbe il gioco all’età di cinque anni, sfuggendo dall’inferno di Leningrado, scalò precocemente le vette della “soviet chess machine”, vinse ori alle Olimpiadi e nelle competizioni nazionali; infine sconfisse al suo secondo tentativo l’infaticabile Tigran Petrosian divenendo il decimo campione del mondo. Forse il suo più grande risultato l’ha ottenuto fuori dalle sessantaquattro caselle: ha mostrato come il rispetto per il gioco e per l’avversario fosse la più grande delle sue virtù.
Non a caso era soprannominato lo scacchista gentiluomo. Ha accettato tutte le stravaganti richieste di Fischer per lo svolgimento del match (compreso il dover giocare alcune partite in una sala da ping pong), e rifiutato di fatto in più occasioni di ottenere la vittoria a forfait. Ha poi difeso il grande rivale, e forse amico, prima dalle più alte autorità russe, e poi da quelle americane, arrivando a scrivere personalmente al presidente Bush per chiedere il rilascio di Bobby dopo il suo arresto a Tokyo. Pendeva su di lui un mandato di cattura per aver giocato nella ex Jugoslavia sotto embargo Onu un match di rivincita, che il gentiluomo aveva accettato volentieri. Se lo avessero trattenuto, scriveva, avrebbe preferito fargli compagnia nella cella. Con una scacchiera, ovviamente.
Questo potrebbe essere il momento per iniziare a ricordare Spassky per quello che davvero è stato, piuttosto che per quello che gli si diceva di essere. Spassky è stato un vero re, forse uno dei meno noti, forse uno dei più soli, ma di certo uno dal quale trarre molti esempi. Ora il re è morto, viva il re.
La partita: B. Larsen vs B. Spassky, Ussr vs rest of the world, 1970, 0-1
Il Nero ha appena fatto un sacrificio spettacolare in h1. Riesci a vedere la continuazione dopo 15.Txh1?