Il Papa va in Belgio e bastona relativisti e cultori del pensiero debole

Davanti ai professori di Lovanio, Francesco sorprende quando dice “siamo immersi in una cultura segnata dalla rinuncia alla ricerca della verità. Abbiamo perduto l’inquieta passione del cercare, per rifugiarci nella comodità di un pensiero debole – il dramma del pensiero debole! – nella convinzione che tutto sia uguale, che una cosa valga l’altra, che tutto sia relativo”

Roma. Più che il caffè in un bar di Lussemburgo, che tanto clamore ha destato – pillola da inserire nella categoria delle “innovazioni” al pari delle scarpe nere e le capatine dall’ottico… dopo undici anni le sorprese non sono più tali per definizione – l’importanza del viaggio papale nel cuore d’Europa è data dalle sue parole. Anche da quelle pronunciate nei momenti “morti”: l’altro giorno, nel Granducato, quando un vescovo tedesco gli ha portato i saluti della Conferenza episcopale di Germania, il Papa (chissà quanto ironicamente) ha chiesto se questa “è cattolica”. Segnale evidente di quel che pensa del Cammino sinodale portato avanti sulle sponde del Reno. A ogni modo, questa mattina, parlando davanti alle autorità belghe, con re in carica e re emerito lì convenuti che (insieme al premier) gli chiedevano conto degli abusi sui minori – il Pontefice ha chiesto perdono per questi “crimini”, parlando di “vergogna” –, Francesco ha per un giorno fatto sorridere gli ucraini, che dalla “bandiera bianca” in poi non è che gli riservassero particolari benevolenze. “Quando – sulla base delle più varie e insostenibili scuse – si comincia a non rispettare più confini e trattati e si lascia alle armi il diritto di creare il diritto, sovvertendo quello vigente”, ha detto il Pontefice, aggiungendo che “siamo vicini a una guerra quasi mondiale”. Da qui l’invito a recuperare la memoria: “L’essere umano, quando smette di fare memoria del passato e di lasciarsene istruire, possiede la sconcertante capacità di tornare a cadere anche dopo che si era finalmente rialzato, dimenticando le sofferenze e i costi spaventosi pagati dalle generazioni precedenti”.

“In questo – ha proseguito il Papa – la memoria non funziona, è curioso, sono altre forze, sia nella società sia nelle persone, che ci fanno cadere sempre nelle stesse cose”. In questo senso, ha detto, “il Belgio è quanto mai prezioso per la memoria del continente europeo. Essa infatti mette a disposizione argomenti inoppugnabili per sviluppare un’azione culturale, sociale e politica costante e tempestiva, coraggiosa e insieme prudente, che escluda un futuro in cui nuovamente l’idea e la prassi della guerra diventino un’opzione percorribile, con conseguenze catastrofiche”. L’Europa – la cui storia bella è fatta, dice il Papa richiamandosi idealmente a Schuman, “di popoli e culture, di cattedrali e università, di conquiste dell’ingegno umano” – deve “riprendere il suo cammino, ritrovare il suo vero volto, investire nuovamente sul futuro aprendosi alla vita, alla speranza, per sconfiggere l’inverno demografico e l’inferno della guerra”.

Ma è a Lovanio, nell’Università “cattolica” che da tempo di cattolico ha quasi solo l’aggettivo posto nella targa, che il Papa sorprende. Parlando al corpo docente dell’ateneo, Francesco constata che “siamo immersi in una cultura segnata dalla rinuncia alla ricerca della verità. Abbiamo perduto l’inquieta passione del cercare, per rifugiarci nella comodità di un pensiero debole – il dramma del pensiero debole! – nella convinzione che tutto sia uguale, che una cosa valga l’altra, che tutto sia relativo”. Mica è finita qui, perché subito dopo dice che “quando nei contesti universitari e anche in altri ambiti si parla della verità, si scade spesso in un atteggiamento razionalista, secondo cui può essere considerato vero soltanto ciò che possiamo misurare e sperimentare, come se la vita fosse ridotta unicamente alla materia e a ciò che è visibile”. Ancora, “oggi rischiamo di cadere nuovamente” nel “razionalismo senz’anima”, “condizionati dalla cultura tecnocratica. Quando si riduce l’uomo alla sola materia, quando la realtà viene costretta dentro i limiti di ciò che è visibile; quando la ragione è soltanto quella matematica e ‘da laboratorio’, allora viene meno lo stupore, viene meno quella meraviglia interiore che ci spinge a cercare oltre, a guardare il cielo, a scovare quella verità nascosta che affronta le domande fondamentali: perché vivo? Che senso ha la mia vita? Qual è lo scopo ultimo e l’ultima meta di questo viaggio?”. La risposta la dà Romano Guardini: “Perché l’uomo, nonostante tutto il progresso, è tanto sconosciuto a sé stesso e lo diviene sempre di più? Perché ha perduto la chiave per comprendere l’essenza dell’uomo. La legge della nostra verità dice che l’uomo si riconosce soltanto partendo dall’alto, al di sopra di lui, da Dio, perché egli trae l’esistenza solo da Lui”. Sguardi pensierosi tra l’uditorio di Lovanio.

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  • Matteo Matzuzzi
  • Friulsardo, è nato nel 1986. Laureato in politica internazionale e diplomazia a Padova con tesi su turchi e americani, è stato arbitro di calcio. Al Foglio dal 2011, si occupa di Chiesa, Papi, religioni e libri. Scrittore prediletto: Joseph Roth (ma va bene qualunque cosa relativa alla finis Austriae). È caporedattore dal 2020.

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